L’ottica sbagliata del Freedom of Information Act (FOIA) all’italiana

Dario Di Maria 03/03/16
Il Freedom Of Information Act (FOIA) “italiano” che il Governo ha approvato in via preliminare il 21 gennaio non opera la “rivoluzione copernicana” che si sperava, e continua ad essere nulla di più che un diritto di accesso “allargato”.
Infatti mentre il FOIA “made in USA” stabilisce l’obbligo per la pubblica amministrazione di rendere disponibili al pubblico tutti i documenti, il FOIA all’italiana riconosce(rà) un diritto di accesso a chiunque, ma sarà pur sempre un diritto di accesso.
Quindi la prima fondamentale differenza è nell’iniziativa: nel FOIA statunitense è lo Stato che rende pubblici i documenti (a prescindere da ogni richiesta), nel FOIA italiano è il cittadino che deve chiedere (e poi lo Stato valuta la richiesta).
Nel primo caso (USA) l’informazione è fornita in modalità “push” (spingere), cioè senza intervento dell’utente, nel secondo caso (Italia) l’informazione è fornita solo in modalità “pull” (tirare), cioè aspettando che l’utente faccia una richiesta.

Vediamo nel dettaglio cosa succede negli “States”, confrontandolo con ciò che è succede(rà) in Italia.

Negli USA il FOIA stabilisce che ogni agenzia federale ha l’obbligo di rendere gli atti amministrativi “routinariamente disponibili al pubblico per visura ed estrazione di copia”, fatti salvi i casi in cui i dati non siano protetti dall’accesso secondo una delle nove “eccezioni” (p.es.: difesa nazionale, dati sanitari, ecc…) o da una delle 3 esclusioni previste dalla legge in materia di indagini penali.
Quindi, per esempio, il Dipartimento di Stato ha precisato con proprio regolamento le categorie di documenti (non i singoli documenti) che possono essere “classificati” (cioè sottratti al pubblico), e di conseguenza, quando forma o riceve un qualsiasi documento, questo diventa pubblico di default, tranne poche eccezioni di documenti che sono “classificati” (chi non ricorda il timbro “top secret” dei film americani?).
I documenti non classificati sono disponibili nella c.d. “stanza di lettura”
(reading room), dove ognuno può andare a visionarli, semplicemente come noi italiani possiamo chiedere un libro in una biblioteca pubblica. Ora è anche attivo il servizio “virtual reading room”, cioè un servizio on-line dove ogni persona può cercare le informazioni contenute nei documenti del Dipartimento di Stato, consultarli e salvarne una copia.
Per esempio, è possibile leggere le contestate mail di Hillary Clinton da sottosegretario di Stato (per provare clicca il link).
Solamente nel caso in cui il documento, per un motivo qualsiasi, non sia disponibile on-line o nella “reading room”, allora chiunque può fare richiesta, che è esaminata entro 20 gg. Anche in questo caso non vi sono costi da sopportare, tranne il caso in cui per la ricerca dei documenti o delle informazioni si superano le 2h/uomo (!) o le 100 pagine (!!).

In Italia, invece, è il cittadino che dovrà fare la richiesta di accedere a determinati documenti, e la P.A. dovrà valutare se permettere l’accesso o meno. Tutto ciò sarà fatto volta per volta, quindi per lo stesso documento si potrà verificare il caso che Tizio riesca ad averlo, e Caio si veda rifiutata la richiesta.
Inoltre si dovranno pagare i costi di ricerca e copia, sempre, anche per una pagina. Immaginate quanto potrà costare il progetto di una fabbrica nucleare o di un’inceneritore.
L’onere di fare la richiesta, indubbiamente servirà da deterrente, poichè le persone potrebbero sentirsi esposte nel caso di ricerche “delicate”. Invece, negli USA, come abbiamo visto si accede ad un archivio e l’archivista fa il lavoro equivalente di un nostro bibliotecario, per non parlare della possibilità di accedere on-line.

Negli USA, se la richiesta è rifiutata, si può fare un appello amministrativo ad un organismo superiore, senza nessuna formalità e senza la necessità di un avvocato. Solamente dopo l’ennesimo rifiuto, si può adire l’autorità giudiziaria.

In Italia, invece, dopo il primo rifiuto dell’amministrazione, il cittadino potrà solo esperire un ricorso al TAR, con ciò che ne consegue in fatto di spese, onorario per l’avvocato, intasamento del nostro sistema giudiziario.

Infine la normativa statunitense prevede l’obbligo per ogni amministrazione di fare i “FOIA reports” annuali, in cui si devono dichiarare le proprie regole interne, quali sono le categorie di documenti sottratti all’accesso, quanti documenti ogni ente ha formato e quanti ne ha classificati, quante richieste ha avuto e quante ne ha rigettate; ovviamente il “report” annuale è pure pubblico.

Invece sembra che il FOIA italiano non abbia tale norma di chiusura, con l’effetto che un dirigente potrebbe sistematicamente rifiutare tutte le richieste di accesso, senza che nessuno lo sappia.

In sintesi è evidente la diversa ottica: negli “States” informare i cittadini è parte integrante del lavoro del pubblico ufficiale e della “mission” dello Stato, per cui vale la pena anche investire delle risorse.
In Italia è, al massimo, un diritto del cittadino “curioso”, che, però, non deve distrarre risorse, tempo e denaro, dal lavoro di ogni giorno.

A questo punto, non ci resta che sperare nelle commissioni parlamentari e nel Consiglio di Stato che dovranno esprimere il loro parere.

Dario Di Maria

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