L’iniziativa legislativa popolare nelle Regioni…

Redazione 23/11/11
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E io che ci credevo.

E io che ci speravo.

E io che mi ero illuso, che l’avvento della c.d. nuova stagione degli statuti regionali inaugurata dalla riforma del titolo V della Costituzione, avrebbe portato con sé una ventata di aria fresca tale da aprire nuovi spazi alla partecipazione popolare negli ordinamenti regionali.

E io che son rimasto deluso.

Mea culpa, mea culpa mea maxima culpa.

Come ho potuto commettere l’imperdonabile errore di fidarmi delle “carte” statutarie?

Ma, del resto, com’era possibile non farlo? E comunque, ho dalla mia almeno tre attenuanti.

Primo. Il nuovo articolo 123 Costituzione, modificato dalle ll. costt. nn. 1 del 1999 e 3 del 2001, sancisce che “Lo statuto regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali”.

Secondo. L’articolo 118 Costituzione introduce nel nostro ordinamento il c.d. principio di sussidiarietà, sia verticale che orizzontale, facendo della partecipazione popolare un elemento caratterizzante della “forma Regione”, e conferendo maggiore dignità a circuiti decisionali alternativi al binomio Presidente/Giunta – Maggioranza consiliare.

Terzo. In tutti gli Statuti delle Regioni Ordinarie e Speciali (sia in quelli di recente emanazione sia in quelli solo aggiornati) la partecipazione popolare, e in particolare l’iniziativa legislativa popolare, sembra assumere un ruolo significativo, innovativo, rilevante, oserei dire.

Ad esempio, l’art. 3 dello Statuto della Regione Toscana afferma che “La Regione garantisce la partecipazione di tutti i residenti e dei toscani residenti all’estero alle scelte politiche regionali”. O lo Statuto della Regione Emilia Romagna, che all’art. 17 detta una disciplina molto accurata sulle modalità di consultazione e stabilisce addirittura un procedimento di “istruttoria pubblica” degli atti normativi o amministrativi di carattere generale. O ancora, l’art. 4 dello Statuto della Regione Calabria, a tenor del quale “1. La Regione promuove la partecipazione dei singoli, delle formazioni sociali e politiche e di tutte le componenti della Comunità calabrese, nonché delle comunità dei calabresi nel mondo alla vita delle istituzioni regionali, al fine di realizzare una democrazia compiuta e lo sviluppo civile delle popolazioni. 2. A tal fine, la legge stabilisce procedure e criteri idonei per rendere effettiva la partecipazione, assicurando servizi e strutture regionali e prevedendo la consultazione di organismi rappresentativi di istanze sociali diffuse”.

Il numero degli elettori richiesto per la presentazione della proposta di legge popolare varia da Regione a Regione, in base alla diversa consistenza demografica: si passa dai 3000 richiesti dall’Umbria ai 15.000 della Puglia.

Con riguardo poi all’oggetto dei ddl popolari, soltanto il Piemonte ha previsto l’iniziativa popolare su atti diversi dalle leggi, ovvero su provvedimenti amministrativi di interesse generale, mentre tutti gli altri Statuti l’hanno focalizzata sulle leggi. Le modalità di presentazione (progetto di legge redatto in articoli e accompagnato da una relazione illustrativa) sono identiche in tutti gli Statuti, mentre la procedura successiva (es., raccolta e autenticazione firme) è solitamente demandata a leggi regionali di attuazione. Alcuni Statuti prevedono poi delle materie nelle quali l’iniziativa popolare non può essere esercitata (es., leggi di revisione dello Statuto, leggi tributarie e di bilancio) e individuano l’organo deputato alla verifica del quorum richiesto o a giudicare sull’ammissibilità dell’iniziativa (es, la Consulta di garanzia statutaria in Emilia, o l’Ufficio di presidenza del Consiglio, nelle Marche).

C’è ed è forte dunque il tentativo di tracciare un collegamento tra società politica e società civile, di innestare potenti elementi partecipativi nell’impianto rappresentativo della forma di governo regionale.

Ma non solo vi è la solenne statuizione di principio scripta.

In tutti gli Statuti regionali i progetti di legge ad iniziativa popolare godono di un trattamento preferenziale, sia attraverso particolari garanzie (ad es., la non decadenza a fine legislatura) sia attraverso aspetti procedurali che ne assicurino (rectius, dovrebbero assicurare) l’esame nel merito da parte delle assemblee legislative regionali in tempi ragionevoli (fissazione di termini massimi che variano da 6 mesi a un anno dalla presentazione).

Negli Statuti della Regione Friuli Venezia Giulia e della Regione Sardegna è previsto perfino che qualora il Consiglio regionale non deliberi entro un anno sulla proposta di legge di iniziativa popolare, venga indetto un referendum regionale, il c.d. referendum propositivo. Certo, il Consiglio regionale può comunque respingere il ddl popolare per evitare le urne, ma si ottiene in ogni caso il risultato di aver obbligato l’assemblea ad esaminare la proposta.

Strumenti analoghi si ritrovano negli Statuti regionali del Lazio, della Provincia autonoma di Bolzano e della Valle d’Aosta.

Indicazioni precise e puntuali finalizzate a favorire le iniziative popolari e ad evitare eventuali pratiche dilatorie.

Tuttavia è sotto gli occhi di tutti come l’euforia partecipazionistica si è pian piano drasticamente attenuata, proprio in ragione del fatto che gli strumenti partecipativi immaginati dal legislatore regionale non riescono ad attecchire in un tessuto nel quale il sistema strutturato dei partiti tradizionali detiene saldamente il monopolio dei canali della partecipazione. Inevitabilmente, la vena partecipativa che si dovrebbe sviluppare attraverso gli strumenti della democrazia diretta anche per il tramite dell’iniziativa legislativa popolare, finisce per inaridirsi.

Cui prodest?

O meglio, cosa succede qualora il legislatore regionale non adempia all’obbligo proveniente da sé stesso?

In quasi tutti gli Statuti regionali, le conseguenze dell’inosservanza non sono chiarite. Furbo, questo legislatore regionale.

Quindi proprio la previsione dell’obbligo per il Consiglio di decidere entro un termine si rivela una soluzione debole, perché priva di una sanzione.

Possibile allora che il legislatore, in linea di principio sembri indicare un notevole favor per le iniziative popolari e poi, in concreto, mostri arrogantemente una sostanziale diffidenza nei confronti di uno strumento estraneo rispetto ai tradizionali circuiti della rappresentanza politica?

Possibile che anche nei capoluoghi di regione, nonostante tutte le garanzie imposte dalla legge, avvenga lo stesso scempio avvenuto a Roma, con il ddl popolare di Beppe Grillo dalle 350.000 firme gettato alle ortiche?

Si, è possibile. E ne ho le prove.

Da più di un anno giace nei cassetti dell’Assemblea Regionale Siciliana un disegno di legge di iniziativa popolare recante “Istituzione della Provincia Regionale di Gela”, sostenuto da 18.680 firme (lo Statuto della Regione Sicilia ne prescrive solo 10.000), che non prevede nessuna maggiore uscita o minore entrata per le casse della Regione e che soprattutto si muove in un’ottica di una riorganizzazione del territorio votata all’efficienza e alla migliore distribuzione delle risorse amministrative ed economiche di quella zona.

La legge regionale di attuazione dello Statuto in materia di referendum e di iniziativa legislativa popolare (L.R. 1/2004) esplicitamente, e con l’evidente ed univoco scopo di obbligare il legislatore regionale a prendere in esame la proposta, prevede che: “Trascorsi sei mesi dalla assegnazione della proposta alla Commissione, senza che la stessa si sia pronunciata, la proposta è iscritta al primo punto dell’ordine del giorno della prima seduta dell’Assemblea Regionale”.

Ovviamente, i termini sono ampiamente scaduti.

Evidentemente, l’assemblea regionale siciliana non ha nessuna intenzione di esaminare la proposta di legge.

Sicuramente, siamo di fronte ad una forte, chiara e grave violazione di legge da parte di chi quella stessa legge l’ha redatta, votata ed approvata.

A cosa serve allora un Parlamento regionale che non decide, che non sa agire da rappresentante dei suoi cittadini proprio sulle questioni per loro più importanti?

Il “popolo” esige decisioni, non infinite discussioni, continui tentennamenti e strategici rinvii.

E per questo i cittadini firmatari del ddl popolare siciliano si sono rivolti a dei legali e hanno notificato all’Ars una diffida stragiudiziale ad adempiere. La legge glielo permette. La legge esige una decisione.

Ma gli organi rappresentativi sembrano sempre meno in grado di offrire tale garanzie, mettendo sempre più in crisi l’idea stessa di rappresentanza.

La sovranità popolare, anche nelle Regioni, (a livello nazionale, ahimè, è ormai un dato di fatto) non può ridursi oggi alla procedura elettorale.

E io, che mi ero illuso, mi ritrovo adesso ad invocare un defensor populi, un nuovo tribuno della plebe che faccia valere i diritti dei cittadini ignorati da un legislatore regionale arrogante e irrispettoso delle sue stesse leggi.

Redazione

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