L’adozione e “l’aggregazione famigliare” nella valenza giuridica degli istituti di diritto civile e nobiliare

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Recentemente, ma vi sono esempi che rimontano anche al secolo scorso, è invalsa la moda di alcuni soggetti, privi di alcun titolo nobiliare, di farsi adottare da soggetti rappresentanti famiglie nobiliari o pseudo-nobiliari, nelle ipotesi più malaugurate, per farsi attribuire o ritenere di aver attribuiti, ope legis, titoli nobiliari, ininfluenti peraltro per l’ordinamento italiano, appartenenti a colui che è l’adottante.

In altri casi per raggiungere il medesimo scopo si utilizza un istituto poco conosciuto ai molti, ma altrettanto al diritto civile ed al diritto nobiliare pregresso, di origine e sviluppo ovviamente monarchico, denominato “aggregazione famigliare”.

Ma cosa avviene in particolare?

Praticamente succede che detti soggetti, in alcuni casi, attraverso atti notarili, ininfluenti soggettivamente sotto il profilo sia civile che nobiliare, e attraverso una “finzione”, che nulla ha peraltro di giuridico, si fanno attribuire dei titoli nobiliari, ancora ritenuti da un soggetto giuridico, denominato adottante, legittimamente ed in alcuni casi anche illegittimamente o persino di nessun valore giuridico e nobiliare perché di fantasia e millantati, per la soddisfazione propria e di coloro che, sconoscendo la normativa di riferimento e soprattutto il diritto nobiliare, si fanno abbindolare da questi navigati soggetti del settore.

E’ utile preliminarmente precisare che nessun atto notarile può giuridicamente riconoscere un diritto in re ipsa, in quanto l’atto notarile redatto da un notaio esplica i suoi effetti giuridici solo in quanto prova legale dei fatti ed atti giuridici che il notaio stesso attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma non  del proprio contenuto o gli effetti che gli stessi possono produrre.

In buona sostanza il notaio può attestare l’avvenuta espressa volontà da parte di un adottante di adottare l’adottato e viceversa l’accettazione, ma non certamente i diritti che emergono dal negozio giuridico o che questo può produrre.

In altri casi, quelli più complessi in cui si vuole assumere addirittura il titolo di Capo di Nome e d’Arme di una pseudo casa dinastica, questi soggetti si affidano addirittura a Camere Arbitrali, in alcuni casi create ad hoc, per farsi riconoscere quello che queste non possono oggettivamente per legge riconoscere, sia perché il contenuto del riconoscimento ha i suoi presupposti  in violazione di norme araldiche, genealogiche e nobiliari, sia per indisponibilità della giurisdizione a farlo, in barba ad diritto vigente ed al diritto nobiliare stesso.

Il tutto avviene a corollario di detta attività con l’attribuzione o meno dell’aggiunta del cognome dell’adottante, in alcuni casi anche in dispregio della normativa sullo stato civile e quella relativa al cambiamento del proprio cognome.

In Italia la normativa che regola l’adozione è quella prevista dal Capo I (Dell’adozione di persone maggiori di età e dei suoi effetti) e dal Capo II (Delle forme dell’adozione di persone di maggiore età) del Titolo VIII (Dell’adozione di persone maggiori di età) del Libro I (Delle persone e della famiglia) del Codice Civile.

E prevista all’art. 291 del C.C. la possibilità di adottare persone di maggiore età per coloro che non hanno discendenti legittimi o legittimati, che hanno compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l’età di coloro che intendono adottare.

Il Tribunale, l’unico organo a intervenire giuridicamente per il riconoscimento dell’istituto dell’adozione tra maggiorenni, e non notai o Camere Arbitrali di qualche dubbia natura, può anche autorizzare l’adozione quando l’adottante ha raggiunto almeno l’età minima di trenta anni, fermo restando la differenza di età di 18 anni tra l’adottante e l’adottato.

In merito è intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza n. 557 del 19 maggio 1988, la quale eccepito la illegittimità costituzionale di questo articolo nella parte che vietava  l’adozione a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti.

Deliberata la sentenza definitiva che pronuncia l’adozione, ad ope

ra del Giudice, unico organo giurisdizionale a poterlo fare,  questa viene trascritta, a cura del Cancelliere del Tribunale competente, entro il decimo giorno successivo a quello della relativa comunicazione, questa da effettuarsi non oltre cinque giorni dal deposito, da parte del Cancelliere del Giudice dell’impugnazione, su apposito registro e comunicata all’Ufficiale di Stato Civile per l’annotazione a margine dell’atto di nascita dell’adottato. (art. 314 c.1° C.C.)

Fatto ciò l’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio (art. 299 c. 1° C.C.). L’adozione così non attribuisce però all’adottato alcun diritto di successione. (304 c. 1° C.C.) se non nelle forme previste dal Libro II del C.C. .

In sostanza ai sensi dell’art. 536 del C.C. la posizione dell’adottato, a seguito di adozione civile, è pari a quella del figlio legittimo e questo soprattutto per quanto riguarda la quota di riserva ed ai sensi dell’art. 567, c. 1° per quanto concerne la successione legittima.

Ma, in mancanza di vincoli giuridici con i famigliari dell’adottante e dell’adottato, l’adozione ordinaria crea solo rapporti personali ed esclusivi tra adottante ed adottato, non instaurando alcun vincolo giuridico tra gli uni ed i famigliari dell’altro, prevedendo, quindi, esplicitamente, che i figli adottivi, in tal caso ed al contrario di quanto avviene nell’adozione piena, risultino estranei alla successione dei parenti dell’adottante.

Da tutto ciò se ne deduce che all’adottato non possono essere attribuiti diritti discendenti dall’appartenenza dell’adottante alla rispettiva famiglia, anche e soprattutto in materia nobiliare, concetto che lo stesso diritto nobiliare ha ribadito nel tempo, come si andrà a vedere più avanti.

Aldilà del Codice Civile, che a seguito di adozione anche di maggiorenni, interviene sulla patronimicità dell’adottato, con l’attribuzione del cognome dell’adottante, anteposto a quello originario e non viceversa, la legislazione in materia di stato civile e cambiamento del cognome ha approntato tutta una propria articolazione che arriva da lontano e precisamente dal R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, le cui norme sono state poi sostituite dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ed infine dal D.P.R. 13 marzo 2012, n. 54.

Chiunque vuole aggiungere al proprio cognome un altro o vuole cambiare il proprio, deve farne domanda al Prefetto della Provincia del luogo di residenza o della circoscrizione in cui si trova l’Ufficio dello Stato Civile dove è depositato l’atto di nascita dell’interessato, chiarendo le motivazioni poste alla base della richiesta di cambiamento o aggiunta.

Il Prefetto, dopo una trafila burocratica e pubblicistica, prevista per legge, alla fine provvede, in caso di accoglimento della domanda, con un decreto che autorizza il cambiamento o la modificazione del cognome o l’aggiunta del cognome, che saranno annotati, su richiesta dell’interessato, nell’atto di nascita, nell’atto di matrimonio e negli atti di nascita anche di coloro che ne hanno derivato il cognome.

Nel diritto nobiliare, sin da tempi lontani, la successione nei titoli nobiliari e nei predicati annessi, aveva luogo solo a favore dell’agnazione maschile dell’ultimo investito per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi, con preferenza della linea sul grado [1], mentre i figli naturali, anche se riconosciuti ed i figli legittimati, attraverso un provvedimento reale, non succedevano nei titoli e nei predicati nobiliari, a maggior ragione  i figli adottivi che non succedevano sia nei titoli che nei predicati spettanti all’agnazione dell’adottante, ad eccezione del caso in cui l’intervento del Sovrano attribuisse titoli di nuova concessione [2].

Anche la successiva normativa, rispetto a quella prevista dal   Regio Decreto 16 agosto 1926, n. 1489, che contiene lo Statuto delle successioni ai titoli e agli attributi nobiliari (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno, del 7 settembre 1926, n. 208) e cioè il R.D. 21 gennaio 1929 n. 61, che approva l’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno 2 febbraio 1929 n. 450, nella ratio di voler prevenire attività truffaldine legate alla compravendita di titoli o onori, mantenne lo stesso profilo di tutela dei titoli e della discendenza, partendo dall’art. 15 che prevedeva, a prescindere delle successive norme sull’adozione, che: “ Le distinzioni nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atti tra vivi o di ultima volontà.”, ribadendo ancora che: “La successione dei titoli, predicati e attributi nobiliari ha luogo a favore dell’agnazione maschile dallultimo investito, per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi, con preferenza della linea sul grado.”[3] e che: “I figli naturali, ancorchè riconosciuti, non succedono nei titoli e predicati nobiliari. I figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi.”[4].

Dunque a maggior ragione per gli adottati si dispose che: “I figli adottivi non succedono nei titoli e predicati spettanti all’agnazione dell’adottante, salve le contrarie disposizioni della Sovrana Prerogativa per i titoli di nuova concessione.[5]

Anche nell’ultimo provvedimento regio, in assoluto,  sullo Statuto Nobiliare, il R.D. 7 giugno 1943 n. 651, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno del 24 luglio 1943, n. 170, supplemento ordinario, sono stati mantenuti per intero i profili di tutela dei diritti nobiliari da possibili attività illecite di compravendita di titoli e onori, infatti all’art. 9 si è previsto che: “Le distinzioni nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atti tra vivi o di ultima volontà”, mentre si apriva un vero e proprio titolo, il V, sullo “Statuto delle successioni ai titoli e attributi nobiliari.”.

All’art. 40 fu previsto che: “Le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito, per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi, con preferenza della linea sul grado”, e all’art. 41, c. 1° che: “I figli naturali, ancorché riconosciuti, non succedono nei titoli e predicati nobiliari.”, mentre all’art. 42, seccamente, che: “I figli adottivi non succedono nei diritti nobiliari delladottante.”.

In tutti e 4 i provvedimenti non si enuncia alcun istituto che possa fare riferimento, aldilà della possibilità prevista da quelli della legittimazione o dell’adozione, a quello dell’ “all’aggregazione famigliare”, istituto, come peraltro ben illustrato precedentemente, sconosciuto anche all’ordinamento civile.

Risulta abbastanza chiaro che sotterfugi di tipo tecnico o giuridico non possono trovare albergo nell’attuale legislazione o in quella più complessa e pregressa del regime monarchico, l’unica che potrebbe avere giurisdizione in merito, atteso che la Costituzione disconosce, oggi, ogni valenza giuridica ai titoli nobiliari ed ai suoi predicati e che pertanto risultano così essere solo stratagemmi di basso profilo utili per colpire la credulità popolare o per essere utilizzati per attività non del tutto trasparenti.


[1] Art. 2 del Regio Decreto 16 agosto 1926, n. 1489 che contiene lo Statuto delle successioni ai titoli e agli attributi nobiliari (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno, del 7 settembre 1926, n. 208).

[2] Art. 3 del Regio Decreto 16 agosto 1926, n. 1489 che contiene lo Statuto delle successioni ai titoli e agli attributi nobiliari (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno, del 7 settembre 1926, n. 208).

[3] Art. 54 c.1° del R.D. 21 gennaio 1929 n. 61 che approva l’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno 2 febbraio 1929 n. 450.

[4] Art. 55 c.1° e 2° del R.D. 21 gennaio 1929 n. 61 che approva l’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno 2 febbraio 1929 n. 450.

[5] Art. 56 del R.D. 21 gennaio 1929 n. 61 che approva l’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno 2 febbraio 1929 n. 450.

Carmelo Cataldi

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