La lettera del Ministro Delrio rivela i gravissimi difetti della riforma delle province

Luigi Oliveri 14/08/13
Scarica PDF Stampa
Se la lettera del Ministro Delrio pubblicata sul Corriere della sera del 4 agosto intendeva essere una risposta alle puntuali e dettagliate critiche rivolte al ddl di riforma delle province dal Prof. DeRita sul Corriere dello scorso 1 agosto (E se lasciassimo in pace le province?), il risultato ottenuto è certamente fallimentare.

Il Prof. Derita si schiera tra i pochi altri osservatori che non si sono voluti accodare alla populistica guerra santa alle province, trainata da Gianantonio Stella e Sergio Rizzo e pervicacemente perseguita dal Governo, che ad ogni consiglio dei Ministri inserisce l’argomento all’ordine del giorno, indifferente ai problemi ben più gravi. D’altra parte, il Ministro Delrio nelle settimane scorse aveva sentenziato: “gli italiani stiano tranquilli, le province verranno abolite”. In effetti, sono esattamente questi i bisogni di tranquillità manifestati dagli italiani. Specie in questi giorni.

DeRita, come i pochi altri osservatori disincantati, aveva messo in rilievo tre difetti gravissimi del presunto riordino territoriale:

a)                  “improvvisate proposte sostitutive (l’idea di 36 distretti intermedi) e richiami costituzionali a una modesta continuità”;

b)                 “quasi tacita accettazione di una fretta per molti versi inspiegabile”;

c)                  “la giustificazione finanziaria della battaglia abolizionista è molto fragile, visto che i risparmi previsti sono lontani dal conclamato ammontare di 2 miliardi e probabilmente, a cose fatte essi si ribalteranno in costi aggiuntivi, specialmente per la sistemazione del personale dipendente”.

La “risposta” del Ministro Delrio rivela una povertà totale di argomenti giuridici, amministrativi e contabili e si appoggia solo ad una necessità quasi ineluttabile di procedere per la strada segnata, sulla base di improbabili riflessioni sociologiche o di puro politichese.

La lettera del Ministro rivela come una delle motivazioni più forti e maggiormente evidenziate per sostenere l’abolizione delle province, cioè il taglio della spesa, sia totalmente inconsistente. Inchieste giornalistiche pressappochiste hanno sparato le cifre più assurde: chi 19 miliardi di risparmio (le province ne spendono solo 11: il ddl Delrio avrebbe l’effetto moltiplicatore tipo nozze di Cana…), chi 2,5, e via così. Un soggetto molto critico verso la spesa pubblica ed attentissimo ai conti come la Cgia di Mestre ha stimato al massimo 510 milioni di risparmi.

Il disegno di legge non si sbilancia: non contiene l’indicazione di nemmeno un centesimo di taglio alla spesa pubblica. E lo stesso Ministro, che l’indomani della presentazione del ddl aveva proclamato risparmi per 2 miliardi in due anni – senza ovviamente precisare come, per effetto di quali voci e tagli – nella lettera non si sbilancia più su nessuna cifra. Il tanto evocato effetto di taglio alla spesa pubblica si traduce in un’espressione arcana: “i risparmi sono certi e potenzialmente elevati in una prospettiva di ripensamento territoriale”. Ecco: il “ripensamento territoriale”. Come non averci pensato prima? Ecco la chiave che farà ottenere i “risparmi potenzialmente elevati”. Ci piacerebbe sapere se la Ragioneria Generale inserirà nel bilancio dello Stato la voce “risparmi potenzialmente elevati” e troverà così le coperture.

La realtà è che i risparmi sono molto strombazzati, ma se le funzioni delle province non verranno cancellate, ma, semplicemente spostate dalle province ad altri enti, la spesa relativa, come sottolinea il Prof. DeRita resterà la stessa.

Non solo. I costi di gestione saliranno inevitabilmente. Il Ministro Delrio esalta lo “spazio che le regioni avranno nel guidare processi di riordino dell’assetto istituzionale o di ripensamento degli ambiti ottimali di gestione dei servizi”. Per un verso, questo è vero solo parzialmente, perché le regioni potranno intervenire solo nelle funzioni provinciali rientranti nella loro potestà legislativa. Per altro verso, in questo modo il ddl insisterebbe nel devastante sistema di federalismo all’italiana, quello stesso avviato nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha permesso alle regioni di incrementare del 40% la loro immensa spesa pubblica (180 miliardi circa), anche “riordinando” l’assetto territoriale con la creazione di miliardi di enti, entini, società, agenzie di ogni natura e foggia, senza alcun controllo. Le province, che nel disegno dei Padri Costituenti dovevano essere gli uffici delle quali le regioni dovevano avvalersi per la gestione delle loro funzioni, potevano e dovevano essere fattore di riordino ed economie di scala. Titolo V e riforma Delrio vanno esattamente nella direzione opposta, verso il caos, nel quale non si capisce chi sia competente a cosa.

Del resto, il ddl frastaglia e polverizza le funzioni oggi gestite da 107 enti tra 8100 comuni, 370 unioni di comuni, 20 regioni, 10 città metropolitane e le restanti 97 province svuotate, con un intreccio incomprensibile di deleghe reciproche e di assetti variabili, tale per cui nessun cittadino, nessuna impresa capirà mai più chi è competente a fare cosa.

Il Ministro Delrio invita a pensare come con la sua riforma possano essere “ripensati i distretti sociosanitari, le forme consortili tra i comuni, tutti i livelli intermedi tra regioni e comuni”.

Verrebbe da chiedergli chi gli scrive i testi. I distretti sociosanitari con le province non hanno assolutamente nulla a che vedere. E qui emerge come chi ha scritto la riforma conosce il sistema dei comuni, ma non ha cognizione delle funzioni e competenze delle province. Anche se, sarebbe da aggiungere, i comuni non hanno “forme consortili”, ma “associative”, perché i consorzi non possono più attivarsi per gestire funzioni, ma servizi non economici. Le forme associative di funzioni sono le unioni di comuni. Sulle quali il Ministro punta moltissimo, non prendendo atto che le unioni di comuni non possono avere, non hanno mai avuto e mai avranno, il compito di gestire funzioni “sovracomunali” di area vasta. Quale area vasta? Le 370 unioni esistenti mettono insieme comuni piccolissimi e debolissimi, allo scopo di consentire di avere un ragioniere a tempo pieno invece che a part time, o di poter avere 6 vigili, così da permettere il servizio di vigilanza anche il pomeriggio. Le unioni sono pensate e servono per gestire funzioni “intercomunali”, cioè, appunto, associare i comuni, fare fronte alle loro debolezze strutturali, mettere una stampella. Ma non saranno mai in grado di gestire un un’ottica di sovracomunalità le funzioni di tale natura (formazione, lavoro, turismo, trasporti, strade, programmazione, ambiente, scuole superiori).

Il ddl disegna la morte dei piccoli comuni, che nelle città metropolitane, governate e fagocitate dal sindaco del capoluogo, diverranno periferia della periferia dei grandi centri; nelle province svuotate resteranno senza alcun appoggio e sostegno per servizi che una volta ricevevano dalla provincia, e che domani dovrebbero essere costretti a svolgere loro. Si pensi alla manutenzione e costruzione di scuole superiori.

Il Ministro Delrio scrive, invece, che col ddl riesce a “valorizzare le comunità primarie e le identità locali, attraverso la partecipazione in prima persona dei sindaci eletti”. Peccato che non spieghi che il ddl vìola la Costituzione, secondo la quale gli enti costitutivi della Repubblica hanno pari dignità istituzionale (come insegna la Consulta), non solo svuotando le province a Costituzione vigente, ma creando comuni di serie A, B e C. Infatti, il sistema del “voto ponderato” negli organi assembleari di città metropolitane e province svuotate farà pesare molto di più la votazione del grande comune a discapito del sindaco del piccolo comune marginale, con buona pace di ogni rappresentatività democratica.

Per non affrontare questi temi, la confusione istituzionale, l’assenza di risparmi, la violenza contro le piccole comunità, la lettera del Ministro è un florilegio di sociologismo da rivista per teen ager, una sequela di aggettivi (nuovo, vecchio, moderno), e formule senza alcun contenuto: “Certamente se ci poniamo in un’ottica solo burocratico-amministrativa di riparto di vecchie funzioni provinciali non ci sarà nessuna innovazione, ma se assumiamo la prospettiva di territori che vedono in questa riforma l’occasione per guardare al futuro, per affrontare la sfida di ripensare le proprie strategie di crescita e coesione, per riformulare le proprie politiche pubbliche e riorganizzare i propri sistemi amministrativi allora <<il vuoto>> si trasforma in <<spazio di innovazione>>”.

Ma, è così che si affronta una riforma e si legifera? Sono queste le argomentazioni che poi, ad esempio, si riportano alla Corte dei conti? Perché, sarebbe da chiedere al Ministro, le funzioni delle province sono “vecchie”? Cos’hanno di vecchio le politiche attive del lavoro? E la formazione? E la programmazione territoriale? E la tutela dell’ambiente? Perché si dice che sono vecchie? Perché vi si deve rinunciare? I disoccupati si arrangino, gli studenti delle superiori vadano nelle scuole private? Qual è, dov’è la modernità del disegno del Ministro Delrio.

Ah. E’ il “benaltrismo” la causa dei mali. Vero. Insieme alle province. Giusto. Purtroppo, dovremo aspettare dai 5 ai 10 anni per renderci pienamente conto della dannosità estrema di un simile avventuristico disegno di “riforma per la riforma”. E vedremo come lo “spazio di innovazione” si sarà ritrasformato in “vuoto”. Quello delle macerie.

Luigi Oliveri

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento