Un gioco di scatole cinesi che si fregia del più italico rimpallo di responsabilità e di competenza decisionale: al solito, c’è sempre qualcun altro a cui spetta l’ultima parola e, alla fine, nessuno sa ancora se l’imposta sia lecita o meno. Né, in maniera ancora più grave, si conoscono eventuali scadenze per i rimborsi di quelle già versate, nel caso l’Iva venga dichiarata illegittima.
Insomma, il classico rimpiattino che vanta tra i suoi protagonisti anche Cassazione e Corte costituzionale e, di recente, pure le Procure. Già, perché oltre al guazzabuglio di sentenze, rimandi ed esami, ora sono in ballo anche alcune inchieste, volte a fare luce, pur coi tempi biblici della giustizia italiana, su un enigma che pende in capo ai soliti, bistrattati contribuenti.
Come noto, dal primo gennaio 2013 la Tares (il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi) dovrebbe sostituire in toto la vecchia Tarsu (storica tassa sui rifiuti) e la neoentrata Tia (che della Tarsu ha preso gradualmente il posto).
Il primo avvicendamento Tarsu-Tia era avvenuto in seguito al passaggio, per il finanziamento dei costi di raccolta e trattamento dei rifiuti, dal regime di “tassa” a quello di “tariffa”. Dal prossimo gennaio, però a rimpiazzare entrambe sopraggiungerà dunque la Tares, che coprirà non esclusivamente la parte dello smaltimento dei riufiti, ma anche altri servizi in capo direttamente ai Comuni, come l’anagrafe o la Polizia locale.
Quello che ancora non si sa, però, è se l’Iva dovrà continuare a essere applicata, come alcune multiutility stanno continuando a sostenere, oppure no, come riconosciuto dalla Corte costituzionale già tre anni or sono e, da ultimo anche dalla Cassazione con la sentenza 3756/2012, dove è stato sancito che la Tia sia un tributo non assoggettabile ad ulteriori tasse, quindi nemmeno all’Iva.
Per la verità, già la Consulta, nel 2009, aveva stabilito come l’Iva sui rifiuti sarebbe giuridicamente illeggittima, trattandosi di un’imposta che pende su un altro tributo: insomma, una tassazione al quadrato del tutto ingiustificata, che i cittadini avrebbero silenziosamente continuato a saldare, fino a un totale stimato in un miliardo di euro su oltre mille Comuni.
Alla sentenze, però, non è seguito un coerente comportamento a livello politico e istituzionale, con notevoli differenze anche tra una Regione e l’altra, a seconda della società che gestisce in prima persona la raccolta dei rifiuti. Già la legge 122/2010, infatti, identifica al comma 33 articolo 14 la Tia come “non tributaria” e dunque assoggettabile a Iva con le detrazioni previste dalla legge.
Così, accade che, ad esempio, Hera – la Società di servizi che gestisce la raccolta a Bologna e in Romagna – abbia potuto continuare impunemente ad applicare l’Iva in bolletta sulla tariffa. A volerci vedere chiaro, nella faccenda, è ora intervenuta la Procura di Rimini, che ha aperto un fascicolo contro ignoti e sta valutando se esistono gli estremi per un abuso d’ufficio.
Peccato, però, che il diritto sia tutt’altro che esplicito nel dichiarare l’Iva sui rifiuti come un surplus di tassazione non dovuto. Anche le Sezioni Unite della Cassazione non siano riuscite a risolvere la questione una volta per tutte, rimettendo le controversie nelle mani della giustizia amministrativa, che non ha tardato a passare la patata bollente nelle mani dei Tribunali ordinari.
Ora, si attende qualche altro pronunciamento, anche se le compagnie impegnate nella raccolta dei rifiuti nicchiano, essendo, in molti casi, l’addebito già versato nelle casse erariali. C’è poi, il problema di quelle imprese che nel recente passato hanno potuto detrarre tale Iva: qualora dovesse ufficializzarsi la non liceità dell’imposta, insomma, si aprirebbe un altro fronte, quello dei calcoli sugli eventuali rimborsi o indennizzi. Un campo dove, come purtroppo sappiamo, lo Stato italiano non primeggia per precisione e tempestività.
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