Un recentissimo studio della CNA rivela che la tanto temuta crisi economica, passata ormai da qualche tempo da crescita zero a recessione, ha colpito soprattutto le imprese artigiane. Secondo lo studio, infatti, il 2012 è stato l’anno nero per l’artigianato, vedendo chiudere ben l’8,4% delle imprese contro il 6% registrato negli altri settori. Il dato peggiore è che le chiusure non sono state compensate da nuove aperture, come avviene solitamente nel mondo delle imprese e dunque tra il 2011 ed il 2012 le imprese artigiane si sono ridotte dell’1,5% in termini assoluti, mentre le imprese non artigiane, tutto sommato, hanno tenuto.
Inoltre, valutando i dati relativi al primo trimestre 2013, secondo la CNA, nell’arco dell’anno in corso potrebbero chiudere altre 140.000 imprese artigiane, arrivando a perdere ulteriori posti di lavoro, si prospettano 300.000.
Ma quali sono le imprese artigiane che soffrono maggiormente? Per assurdo sono proprio quelle che nell’immaginario collettivo rappresentano il fiore all’occhiello dell’economia italiana: sartoria e abbigliamento. In questo settore si registra un tasso di cessazione pari al 12% con un tasso di crescita di meno 2,2 punti percentuali. A seguire vi sono altre categorie artigianali, come il tessile, che vede un tasso di cessazione del 9,4% e un tasso di crescita pari al -2,4%.
Secondo la CNA vi sono poi settori artigianali definiti in lento declino, ossia che stanno subendo una lenta erosione della base produttiva (inferiore al 2% su base annua), a causa del basso numero di iscrizioni; tali imprese rappresentavano, fino a qualche anno addietro, una buona fonte di guadagno, ma hanno subito e continuano a subire una decrescita solo accentuata (e non causata) dalla crisi economica. Tra queste imprese rientrano quelle di produzione di ceramiche e terracotta (tasso di cessazione: 6,3%; tasso di crescita: -2,7%), altra produzione eccellente di numerose regioni d’Italia, pensate, per esempio, alle ceramiche di Faenza o di Caltagirone o ancora alle porcellane di Capodimonte e alla terracotta di Grottaglie, produzioni conosciute, stimate e apprezzate nel mondo.
Insomma, i dati non sono confortanti, se il centro studi CNA, nel suo report oggi in commento, ha dovuto precisare che “queste cifre, sebbene preoccupanti, non rendono appieno il dramma insito in ogni chiusura di ogni singola impresa. Oltre ai riflessi negativi in termini di minore competitività del Sistema Italia, con la chiusura delle imprese vengono azzerati interi progetti di vita, storie di eccellenze, investimenti in capitale, umano e non, accumulati nel corso di generazioni”, e che le chiusure prospettate nel 2013 “(..) riguarderanno non solo le imprese marginali ma anche quelle realtà produttive più strutturate che negli anni passati, nonostante la dimensione ridotta, hanno dato prova di potere competere con successo anche a livello internazionale”.
Tra queste imprese artigianali rientrano a pieno titolo quelle del settore tipico ed artistico, un settore ancor più a rischio perché composto da piccole botteghe artigianali che si dedicano solo alla realizzazione di manufatti di estrema qualità, dunque cari e che non garantiscono un reddito continuo e sicuro. E’ vero, però, che tali prodotti artigianali sono apprezzati nel mondo e ricercati dai numerosissimi turisti culturali che ogni anno affollano i centri storici delle piccole e grandi città d’Italia, alla ricerca della bottega artigianale e del pezzo unico, impossibile da trovare in commercio nei negozietti di cianfrusaglie cinesi. E’ vero, eppure questo enorme capitale di conoscenze, know-how, risorse strumentali e umane, storie di vita e di passione tramutata in lavoro rischia di scomparire, così come prospettato dal Centro Studi CNA. E rischia di scomparire, con esse, anche un pezzo di storia dei nostri territori, nell’ottica per cui l’artigianato è l’espressione materiale del ricco patrimonio immateriale italiano.
Lo ha detto l’UNESCO, nella sua Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, che il patrimonio culturale immateriale si manifesta, tra l’altro, nel settore dell’artigianato tradizionale (art. 2, comma 2, lett. e)), lo dice la Carta costituzionale, quando stabilisce che la Repubblica deve promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro e promuovere altresì lo sviluppo della Cultura (comb. disp. artt. 4.1 e 9 Cost.). Ora non resta che lo Stato-Ordinamento, in tutte le sue articolazioni, e – magari – secondo i principi di leale collaborazione e di cooperazione, metta in atto modalità pratiche di realizzazione di quanto annunciato dall’UNESCO e di quanto stabilito nella Costituzione. Si, perché l’Italia ha aderito alla Convenzione UNESCO, facendone proprie le finalità contenute nel testo, dunque non vi sarebbero impedimenti normativi affinché si possa riconoscere all’artigianato tipico ed artistico una sua propria dignità di rango culturale. In altre parole è necessario che lo Stato riconosca all’artigianato del settore tipico ed artistico una valenza culturale e, successivamente, tramuti questo riconoscimento in misure normative e/o regolamentari onde preservare l’integrità del patrimonio culturale materiale e immateriale.
Come? Anzitutto predisponendo un apposito Albo di imprese artigiane gestito non solo dalle locali CCIAA, ma anche dal Ministero dei Beni Culturali. Insomma, una sorta di “marchio di garanzia” delle piccole botteghe artigianali, un albo che ricomprenda solo ed esclusivamente imprese artigiane del settore tipico ed artistico i cui processi produttivi siano svolti interamente in loco, con l’uso di materie prime naturali e, nei limiti del possibile, provenienti dal territorio. In questo modo si avrebbe una mappatura ben precisa delle piccole realtà artigianali, un primo passo verso la loro tutela e valorizzazione.
Inoltre, in modo da incentivare l’apertura di nuove imprese artigianali e nell’applicazione di sistemi perequativi, sarebbe necessario un sistema di riduzione della pressione fiscale, di incentivi alle nuove imprese e, infine, di contributi economici per la partecipazione a fiere ed eventi nazionali ed internazionali, che spesso rappresentano l’unico modo che ha l’artigiano per farsi conoscere (vista l’impossibilità di accedere ai canali pubblicitari di massa). Perché se è vero che tutto sommato le imprese non artigianali riescono a tenere nonostante la crisi, è anche vero che l’artigianato tipico ed artistico è figlio di un dio minore per motivi a tutti noti (alti costi di gestione, mercato di riferimento limitato, bassa produzione, etc.) e, di conseguenza, ambisce da sempre ad un minor fatturato rispetto alle altre imprese. Ecco perché un sistema di incentivi e di riduzione della pressione fiscale non dev’essere visto come un favore, ma come una perequazione in grado di eliminare le ingiustizie in campo tributario e le enormi disparità nel mercato tra imprese non artigianali e artigianali e, al loro interno, tra artigianato tout court e artigianato tipico ed artistico.
Insomma, le piccole botteghe rappresentano un po’ lo scenario della lotta tra Davide e Golia.
Speriamo solo che prima o poi l’Ordinamento italiano fornisca il sasso a Davide.
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