Alle otto del mattino la polizia si è presentata nella scuola dove il bambino studia.
Gli agenti avevano il compito di prelevarlo e di portarlo in una struttura protetta, su decisione dei giudici della Corte d’Appello di Venezia.
C’erano stati diversi tentativi di eseguire gli ordini dei giudici, andati a vuoto..
A quel punto è stato deciso che la separazione doveva avvenire in un territorio neutro e, a tre mesi dall’ordinanza, l’esecuzione è avvenuta mercoledì.
I poliziotti si sono presentati a scuola con il padre; il bambino ha cominciato a scappare attorno alla scuola e altri agenti lo hanno rincorso, lo hanno preso e lo hanno portato via.
Vicino, una zia aveva una videocamera con la quale ha ripreso la scena ed spedito il video alla trasmissione «Chi l’ha visto» che l’ha mostrato in prima serata.
Dopo la diffusione del video, la polizia ha scritto un comunicato stampa dove si legge che “l’intervento è stato eseguito presso la scuola in quanto i tentativi esperiti in passato presso la casa materna e dei nonni non avevano avuto l’esito sperato, il bambino si nascondeva alla vista degli assistenti sociali e dal personale sanitario intervenuti”.
Al di là delle diverse interpretazioni sulla congruità dell’intervento e sulle modalità più o meno violente con cui esso è stato condotto, questo fatto di cronaca merita alcuni commenti.
Una prima constatazione riguarda il clamore e la relativa gazzarra mediatica e televisiva che ne è seguita.
Esiste un preciso codice di comportamento, dettato dalla Carta di Treviso, che vieta la diffusione a mezzo stampa di immagini e di notizie che violino il diritto alla riservatezza dei minori.
In questo senso, la diffusione del video rappresenta non solo una aperta violazione di queste norme, ma una vera e propria violenza ai danni del minore, ben più grave di quella perpetrata dagli agenti che sono intervenuti su di lui.
Tutti, in primis i politici, si sono espressi su un caso evidentemente molto delicato e in merito alle decisioni che sono state assunte (peraltro nel pieno rispetto del diritto di contraddittorio per le parti) dalla Corte d’Appello, esprimendo giudizi senza conoscere la complessità delle dinamiche che ne erano alla base.
Da un lato l’emotività, dall’altro la ricerca esasperata dell’audience hanno fatto sì che la situazione sfuggisse dal controllo, assumendo un rilievo del tutto spropositato.
Non si tratta del primo allontanamento disposto in casi del genere e questo clamore può solo nuocere al bene supremo da tutelare, ovvero l’interesse del minore.
Una seconda considerazione riguarda il dibattito che si è aperto attorno alla c.d. “sindrome di alienazione genitoriale”, altrimenti nota con l’acronimo “PAS”, descritta per primo dallo psichiatra americano Richard Gardner. Sembra talvolta che sia impossibile affrontare i problemi che dietro essa si celano con sufficiente pacatezza, ovvero senza scivolare su un crinale che inevitabilmente conduce ad una contrapposizione di schieramenti su basi ideologiche.
Da una parte la PAS viene sostenuta a difesa dei loro diritti soprattutto dai padri separati, pronti ad invocare la sua influenza per giustificare la presenza, nei loro figli, di reazioni di evitamento o addirittura di rifiuto nei loro confronti generate dalle influenze materne. Dall’altra, la PAS è oggetto di un ampio e variegato ventaglio di critiche che assumono non di rado il carattere di veri e propri attacchi.
Sembra che non si possa uscire da una contrapposizione tra coloro che usano il concetto di PAS, spesso a sproposito, come un proiettile scagliato contro le madri che impedirebbero ai figli di rapportarsi con i loro padri e, sull’altro versante, coloro che invece lo considerano, altrettanto spesso a sproposito, come un velo strumentalmente utilizzato per coprire comportamenti impropri di padri incapaci o addirittura snaturati ovvero di mariti trascuranti o violenti. Va precisato che il problema non riguarda necessariamente i padri: anche se l’alienazione di una figura genitoriale colpisce più frequentemente il padre, non sono infrequenti le situazioni in cui è la madre ad esserne vittima.
Il dibattito andrebbe comunque ricondotto nell’alveo della ricerca e della riflessione, evitando opposte strumentalizzazioni. Il lavoro di Gardner può essere assunto come punto di partenza e non certo come punto di arrivo, emendandolo da alcune forzature interpretative che sono state giustamente oggetto di critiche. Una delle principali (il fatto che il concetto di PAS “copra” le situazioni determinate da veri e propri comportamenti inadeguati e impropri da parte del genitore “alienato”) riflettono però una non conoscenza del pensiero di Gardner, il quale nella sua definizione originaria della PAS nel 1985 aveva previsto questa possibilità. Scriveva infatti l’Autore che la PAS è il risultato della combinazione di una programmazione (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino alla denigrazione del genitore-bersaglio; in presenza di reali abusi o di trascuratezza l’ostilità del bambino può essere giustificata e di conseguenza non si può ricorrere alla nozione di PAS.
In ogni caso, le diatribe a favore o contro la PAS sono del tutto fuorvianti: l’alienazione genitoriale non corrisponde ad una “sindrome” né ad un “disturbo” psichico individuale, né la sua individuazione coincide con un processo psicodiagnostico.
L’alienazione di un genitore si qualifica come un disturbo della relazione e non come un disturbo individuale. Il punto di partenza consiste in un disfunzionamento familiare al quale contribuiscono tre soggetti: il genitore “alienante”, quello “alienato” ed il figlio, ciascuno con le proprie responsabilità e con il proprio contributo che può variare di caso in caso. Risulta quindi preferibile utilizzare più correttamente il termine «Alienazione Parentale», eliminando la parola “sindrome” che appare impropria e confusiva. E’ con questo termine che questa nozione entrerà nella prossima edizione del DSM, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, all’interno dei “disturbi relazionali”, ovvero di quelle problematiche che contaminano la relazione tra due o più persone.
In questo senso, come ha scritto Fulvio Scaparro sul Corriere della sera, non c’è angoscia più grande per un bambino di quella che ha origine dalle accanite battaglie quotidiane tra i genitori. Non conta chi di loro abbia più “ragione” o più “torto”: conta se, come e quanto il bambino sia stato attirato a sé da un genitore ai danni dell’altro.
Ciò che è certo, e su cui concorda la comunità scientifica, è che l’alienazione di un genitore, quando non motivata da comportamenti realmente maltrattanti, rappresenta un un fattore di grave rischio evolutivo per il figlio per l’instaurarsi di diversi disturbi di interesse psicopatologico.
Numerosi sono gli studi che confermano la nocività di questa condizione per la salute psichica di un bambino coinvolto in relazioni familiari altamente conflittuali. Questi bambini tendono a sviluppare un disturbo dell’identità, sovente della sfera sessuale; generalmente risultano più vulnerabili alle perdite e ai cambiamenti, mostrano comportamenti regressivi e manifestano una bassa autostima ; si possono osservare anche aggressività, egocentrismo, comportamenti autodistruttivi, ossessivo-compulsivi e dipendenti. In questa prospettiva, possono spesso rendersi necessari interventi psicosociali preventivi volti ad evitare che a partire da un disfunzionamento familiare possano instaurarsi danni stabili per lo sviluppo del minore coinvolto.
L’esclusione di un genitore dalla vita di un figlio chiama in causa i diritti relazionali dei soggetti coinvolti ed in questo senso l’alienazione parentale rappresenta una condizione di interesse non solo clinico, ma giuridico. La legge 54/2006 in tema di affidamento condiviso colloca infatti in primo piano il diritto dei figli alla bigenitorialità (art. 155 co. 1). Il nuovo regime della separazione è perciò finalizzato a garantire i diritti relazionali così riconosciuti, i quali per loro natura si configurano come biunivoci, tra ciascun genitore in condizione di parità rispetto all’altro, ed il figlio minore. Il diritto alla bigenitorialità del figlio minore è definito dalla legge con preciso riferimento alla trasformazione delle sue relazioni familiari in occasione della separazione dei genitori.
Quando il clamore mediatico su questo caso si sarà attenuato e quando i politici in cerca di visibilità avranno cessato di occuparsene più o meno invasivamente, si potrà riflettere con maggiore pacatezza sulle dinamiche e sui problemi che ne sono alla base, in nome della necessità di individuare soluzioni educative e giudiziarie che tengano fuori (per quanto possibile) i minori dalla guerra tra i genitori senza assegnare loro, più o meno direttamente, l’indebito ruolo di spettatori, di tifosi o, peggio, di arbitri.
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