La pioggia di agosto portava con sé i primi refoli d’autunno e un po’ di tristezza tra i tavoli del bar della stazione. Anche l’argomento del giorno non contribuiva a migliorare il tono dell’umore. Si discuteva ancora tra noi dei quotidiani episodi di violenza dell’uomo sulla donna. Sull’argomento lo psichiatra aveva cambiato idea. Sosteneva che sul problema il sistema sbagliava diagnosi e terapia. Il conflitto familiare, diceva, tra uomo e donna e tra genitori e figli è la regola, ma degenera in violenza in un numero molto limitato di casi, quasi sempre prevedibili, perché accadono in famiglie multiproblematiche note e alla polizia e ai servizi sociosanitari. Famiglie in cui violenza e costrizione si tramandano di generazione in generazione, figli maltrattati che da grandi diventano genitori maltrattanti, ragazze picchiate che per fuggire dalla propria famiglia di origine sposano giovanissime il primo uomo che incontrano, il quale spesso ha una identica storia di violenza e di abbandono e si rifà sulla donna che sposa. Una spirale coercitiva e assassina senza esperienze di amore e di protezione che il sistema conferma e peggiora, anziché curare. Come? Considerando il reato e non la malattia, elargendo la punizione e non la cura, coi servizi sanitari e sociali che diventano autorità di polizia e di controllo a fianco del Tribunale, anziché servizi di protezione e di aiuto alternativi al Tribunale o al limite incaricati da questo di sottoporre il malato ad una terapia obbligatoria. A queste ultime parole il professore di filosofia sobbalzò nello sguardo e intervenne per rivelarne a contraddizione teorica e pratica. La terapia coatta, disse, è una contraddizione in termini. Ordinare a una persona il cambiamento è come ordinare a qualcuno di essere spontaneo. La cura è volontaria, nasce dalla richiesta della persona, non può essere imposta. E poi se il sistema sanitario o sociale obbliga la persona alla cura non fa altro che proporre lo stesso metodo coercitivo che il soggetto ha sperimentato sulla sua pelle tutta la vita senza speranza. Allora io mi permisi di dissentire dal professore con due idee di buon senso che mi sono venute in mente lì per lì. L’educazione, quella buona intendo tra genitori e figli, non è forse una relazione di aiuto e di protezione all’interno di una cornice di regole, di doveri e anche di divieti? E poi se è il Tribunale a ordinare al servizio psicosociale di curare quella coppia o quella famiglia, essi si trovano su un piano di assoluta parità e collaborazione: servizio e famiglia infatti rispondono entrambi ad un obbligo superiore. Francesco, il pediatra, rincarò la dose e chiuse il cerchio: io sono colui che cura il bambino e la sua famiglia, non posso essere mai il loro vigilante e il loro giudice, noi della sanità e del sociale non possiamo mai essere un servizio di polizia, questo esiste già per conto suo e a questo il Tribunale deve rivolgersi, non a noi. Mi alzai dalla sedia soddisfatto e vidi da lontano una assistente sociale del Comune, dove avevo lavorato, che aspettava il treno. Dove vai? gli chiesi. Al Tribunale di Forlì con quella coppia, mi rispose, il giudice deve decidere se restituirgli la loro figlia affidata ad un’altra famiglia oppure no. La coppia se ne stava appartata, con lo sguardo ora rivolto verso il basso ora rivolto di sbieco alla mia amica. E come deciderà il giudice? le chiesi. In base al nostro “giudizio”, rispose, un lavoro da cani il mio da non augurare al peggior nemico. Stavano tutti male. Anch’io stavo male nel vederli. Ecco, quando tutti stanno male vuol dire che tutti abbiamo sbagliato tutto.
I tre amici discutono di…maltrattamenti familiari e dei servizi
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