Eppure la sentenza 16305/2013 merita attenzione, perché affronta questioni basilari del vivere insieme in società.
Il Potere, di qualunque colore e origine, cerca sempre di comprimere la libertà ed il dissenso: ben vengano le pronunzie a favore di questi.
La sentenza delle Sezioni unite è importante, perché ha ripetuto dei principi che valgono a delimitare l’estensione del Potere, a favore di diritti che sono regolati – anche in modo molto generale – dall’ordinamento e quindi possono essere tutelati dinanzi ad un Giudice.
La questione nasce dalla richiesta, avanzata dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionali allo Stato italiano, di aprire la trattativa per stipulare un’intesa di quelle previste dall’art. 8, terzo comma, della Costituzione.
Si tratta delle intese che regolano i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato, e che sono tradotte in legge.
Il Governo rifiutò anche l’avvio della trattativa perché ritenne che l’associazione richiedente non era una “confessione religiosa”.
L’associazione impugnò l’atto di rifiuto dinanzi al TAR Lazio. Questi ritenne il ricorso inammissibile perché la ricorrente non aveva nessun diritto neanche alla trattativa: infatti l’apertura o meno della stessa era una scelta puramente politica del Governo, come tale sottratta a qualsiasi controllo da parte dei Giudici.
Proposto appello al Consiglio di Stato, questi ha invece ritenuto che sussisteva un diritto dell’associazione almeno all’avvio della trattativa, mentre la questione se essa andava qualificata “confessione religiosa” rientrava nella discrezionalità tecnica della pubblica Amministrazione, da affrontare nell’ambito della stessa trattativa.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato la sentenza del Consiglio di Stato dinanzi alla Corte di Cassazione, appunto ripetendo che il rifiuto di trattativa è un atto politico, che si sottrae a qualsiasi controllo giurisdizionale.
La Corte di Cassazione (a Sezioni unite) ha ritenuto, invece, che non si tratta di atto politico ma amministrativo, per quanto connotato da ampia discrezionalità.
Per le Sezioni unite, infatti, gli atti anche del Governo non sono politici, quando siano adottati nell’ambito di un fine, che è già previsto dall’ordinamento, o comunque quando “l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio” (così citando la sentenza della Corte Costituzionale n. 81/2012).
In altri termini, le Sezioni unite ritengono – sulla scia di diverse pronunzie precedenti, sia delle stesse Sezioni sia appunto della Corte Costituzionale – che quando una posizione del cittadino trovi comunque una previsione nell’ordinamento, questa può trovare tutela, ed il corrispondente potere pubblico smette di essere politico.
Le Sezioni unite osservano che l’esigenza di tutela si pone particolarmente nella materia religiosa che, “ per il suo essere tradizionale terreno di azioni antiumanitarie, è tra quelle in cui più sensibile è la tensione opposta. che induce a consentire l’accesso alla tutela giurisdizionale in funzione antidiscriminatoria”.
In pratica, le Sezioni unite (e prima il Consiglio di Stato) hanno avvertito il pericolo che il rifiuto della trattativa potrebbe costituire uno strumento di discriminazione.
Se un atto non è politico quando incide su una materia comunque regolata – anche in modo molto generale – dall’ordinamento, dove si trova l’aggancio per affermare che le trattative con le confessioni religiose sono tutelate dalla legge?
Il diritto delle confessioni ad essere prese in considerazione trova fondamento da un lato nell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, che prevede l’obbligo della preventiva pattuizione, in modo da evitare interventi legislativi unilaterali; dall’altro nel principio della laicità dello Stato, il quale “implica che in un regime di pluralismo confessionale e culturale sia assicurata l’eguale libertà delle confessioni religiose” (così le Sezioni unite).
Significativa mi sembra anche la seguente considerazione: “Anche se l’assenza di una intesa con lo Stato non impedisce di professare liberamente il credo religioso, è in funzione dell’attuazione della eguale libertà religiosa che la Costituzione prevede che normalmente laicità e pluralismo siano realizzati e contemperati anche tramite il sistema delle intese stipulate con le rappresentanze delle confessioni religiose”.
Nella prospettiva del pluralismo, non è sfuggito alla Sezioni unite che la regolamentazione dei rapporti serve anche a garantire lo Stato che “l’esercizio dei diritti di libertà religiosa non entri in collisione, per quanto è possibile, con le sfere in cui si manifesta l’esercizio dei diritti civili e del principio solidaristico cui ogni cittadino è tenuto”.
La libertà religiosa va dunque tutelata anche in senso negativo, a tutela di principi fondamentali di convivenza sociale.
In conclusione, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionali ha diritto all’apertura della trattativa per la stipula di un’intesa; nell’ambito di questa trattativa si porrà la questione se tale associazione presenti le caratteristiche per essere qualificata come “confessione religiosa”; l’eventuale valutazione negativa, con chiusura della trattativa, potrà astrattamente essere sottoposta di nuovo al Giudice amministrativo, per verificarne la legittimità; chiaramente la cognizione del Giudice sarà condotta con canoni molto ampi, corrispondenti agli spazi lasciati alla discrezionalità amministrativa o tecnica.
Non va però dimenticata, in proposito, la seguente indicazione delle Sezioni unite: “La posizione del richiedente l’intesa mira dunque a ottenere che il potere di avviare la trattativa sia esercitato in conformità alle regole che l’ordinamento impone in materia, che attengono in primo luogo all’uso di canoni obbiettivi e verificabili per la individuazione delle confessioni religiose legittimate”.
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