Il fatto. Ma cosa c’entrava e cosa c’entra la vendita dei farmaci di fascia C al di fuori della farmacia con le misure economiche indispensabili a risanare il Paese? Francamente, non è dato capirlo. A fronte della certezza della sua ininfluenza assoluta, non si riescono, infatti, a comprendere i contenuti della dichiarazione di Pierluigi Bersani all’esito del voto favorevole sulla manovra al Senato e del suo successivo intervento alla Camera. L’unica cosa che il leader politico, della mia sinistra, ha avuto modo di rilevare è stata la sua stupefazione in relazione alla “debolezza del Governo sul tema delle liberalizzazioni”. Ergo, su quella dei farmaci di fascia C in favore della grande distribuzione organizzata.
Più che la dichiarazione del segretario di quello che è divenuto il primo partito italiano è sembrata essere ai più – atteso il tono e la passione impiegati – la reazione di uno così incazzato con i farmacisti da avere loro giurato una guerra a tutto campo, a prescindere da tutto e da tutti.
Con tutti i problemi che affliggono e che affliggeranno gli italiani a seguito di una manovra così tosta, come può giustificarsi un’azione così limitata da parte della sinistra (!) italiana? Poco per i pensionati e quelli che dovranno aspettare per esserlo, entrambi in sensibile sofferenza. Altrettanto sui tagli della politica, limitati a qualche impercettibile limatura. Nulla per il Sud martoriato dalle povertà e dalla mancata previsione del risanamento idrogeologico del Paese che sprofonda ovunque. Silenzio assoluto per l’occupazione dei giovani, per le imprese che chiudono e rompono i tradizionali rapporti contrattuali. Non un pensiero per l’assistenza ai soggetti deboli.
Nulla di tutto questo, perché il vero problema del Bersani-pensiero sembra essere quello delle farmacie che fanno business con le pillole dell’amore piuttosto con lo sciroppo che fa (quasi) bene alla salute. Un business che occorre condividere con i megastore, così come preteso dalla grande distribuzione organizzata, Coop in testa.
Il problema è tutt’altro e la sinistra, che ne è stata genitrice, lo dovrebbe ben conoscere e valutare.
In gioco c’è la natura concessoria della farmacia che attribuisce la titolarità del servizio allo Stato (oggi alle regioni). Un servizio che l’Autorità pubblica realizza attraverso le farmacie comunali e private: dignitosamente, ovunque e da oltre un secolo (bastino le farmacie comunali bolognesi, piuttosto che quelle toscane). Una caratteristica, questa, che impone la presenza di almeno una farmacia per ogni comune. Una prerogativa che rappresenta una certezza assistenziale reale, specie in quelle piccolissime realtà municipali, quasi sempre segnatamente montane.
Insomma, un sistema che funziona con la presenza di una farmacia, pubblica o privata che sia, ogni 3.374 abitanti, a fronte dei 3.323 della media europea, tenendo conto della Grecia, beninteso, ad apertura liberala.
Ebbene, in presenza di un servizio che funziona e di una caduta generalizzata della redditività delle farmacie (che, è bene dire, effettuano uno sconto medio ordinario al SSN del 10%) è davvero pericoloso rompere il sistema di servizio creatosi, che ricordiamo esser riconosciuto come il migliore del mondo.
A ben vedere, la situazione è delicata e la politica dovrebbe ben conoscere i rischi di una possibile degenerazione organizzativa. E’ già numeroso il ricorso alle procedure concorsuali (piani di ristrutturazione e concordati preventivi) per evitare i maggiori disagi che deriverebbero da oramai verosimili dichiarazioni di fallimento di farmacie in crisi di liquidità, causate dai disagi che le circondano e le assediano. Ne sa qualcosa il sistema all’ingrosso dei farmaci, anch’esso al limite della sopravvivenza economica e occupazionale.
Dunque, una situazione a rischio e sottovalutata a causa del distacco della politica con la realtà, che conosce sempre di meno. Una politica che disattende, da sinistra (ed è grave), l’importanza del sistema di concessione pubblica e delle tutele che esso garantisce, allo stesso modo di come esso salvaguarda una considerevole occupazione.
Poi, per fare cosa? Per garantire alla grande distribuzione, oramai in mano a pochi, di usare il farmaco come prodotto civetta? Questo sarebbe il vero business che occorrerebbe evitare, per non incentivare, anche indirettamente, l’acquisto dei medicinali.
Non c’è etica nella grande distribuzione, meglio, la stessa garantita dalla farmacia tradizionale, tant’è che lo stesso legislatore assegna alla medesima la somministrazione in esclusiva delle sostanze stupefacenti e psicotrope, nonché gli ormoni. Non c’è la stessa tranquillità nel sistema autorizzatorio a maglie larghe, meglio, la stessa assicurata da quello concessorio. Distruggere l’attuale comporterebbe il verosimile rischio di trovarsi di fronte ad offerte “accattivanti”, del tipo tre medicinali al prezzo di due, con tre bollini di sconto su fiordilatte e gorgonzola!
Così facendo verrebbe meno la tutela della salute pretesa dall’art. 32 della Costituzione. L’articolo del manovra (anche’esso 32 per una strana coincidenza) lede infatti la Carta rendendo “mercantile” la circolazione dei farmaci.
La lettera dell’articolo approvato (32). Come dicevo il testo definitivo, ancorché sensibilmente modificato rispetto a quello originariamente proposto, non rappresenta una soluzione apprezzabile. Ciò accade perché è divenuto la rappresentazione di una commistione di idee, alcune bislacche.
Rinvia l’identificazione dei farmaci che, ancorché sottoposti a ricetta medica, andranno a rappresentare l’oggetto della vendita liberalizzata, ad una decisione amministrativa dell’Aifa. La stessa dovrà, infatti, attraverso i meccanismi allo stato disponibili, ricorrendo anche a declassificazioni categoriali, predisporre la lista di quanto vendibile nella parafarmacie e nei corner della grande distribuzione organizzata.
Ciò che non convince, è quanto residuato dal vecchio articolo, ovverosia la facoltà di praticare degli sconti dei farmaci. Una facoltà pericolosa soprattutto perché utilizzata a fini marketing, cosicché il farmaco verrebbe ad assumere il ruolo di prodotto civetta con l’amara conseguenza di incrementarne il consumo. Tutti conoscono – primo fra tutti il prof. Garattini, perché lo ha sempre manifestato in lungo e in largo – i danni derivanti dallo scorretto consumo dei farmaci e quanto in proposito sia stata importante la conoscenza anamnestica che il farmacista “di famiglia” ha assicurato sino ad oggi. Una tutela che con la “liberalizzazione” verrebbe meno.
Il merito. La liberalizzazione dei farmaci e/o delle farmacie viene sbandierata come strumento legislativo propedeutico alla realizzazione di consistenti risparmi per i cittadini e all’incremento dell’occupazione giovanile. Al riguardo, nessuno ha avuto modo, però, di dimostrarlo neppure sotto il profilo teorico. Tutt’altra, è la conclusione cui è invece pervenuta la CGIA di Mestre, ritenuta – da tutti – una delle organizzazioni di ricerca del mercato più attendibili sotto il profilo scientifico. Ebbene, la stessa ha dimostrato in proposito che ad ogni liberalizzazione intervenuta nel nostro Paese sono conseguiti notevoli incrementi di spesa per i consumatori. Solo per fare qualche esempio, verificati nel medesimo periodo (1994 ad oggi): le assicurazione sui mezzi di trasporto sono aumentate del 183,1% a fronte di una inflazione del 43,3%; i servizi bancari del 109,2% e così via.
Ha dimostrato insomma che a valle di ogni decisa liberalizzazione si sono verificati aumenti di spesa inaccettabili. Accadrà la stessa cosa con i medicinali, al netto della caduta della garanzia che solo la farmacia tradizionale può concretamente assicurare!
Infine, come la mettiamo con i capitali della delinquenza organizzata che potrebbe impiegare in una grande distribuzione resa più appetibile imprenditorialmente? In pochi si rendono conto, quante le mafie stiamo diventando pericolose (Gratteri, docet). Evitiamo di dare loro una mano in più!
Anche al riguardo, la farmacia concessionaria pubblica si è resa assolutamente garante!
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