La disintermediazione ai tempi di Facebook

Redazione 08/04/17
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Iniziamo con un po’ di cronaca politica spicciola. Notizia: in Germania progettano di comminare a Facebook una multona da 50 milioni di Euro. Il motivo? La grande F non si starebbe impegnando abbastanza per combattere le fake news, i contenuti che incitano all’odio, alla violenza e, perché no, anche i contenuti pedopornografici. Fra l’altro, hanno anche reagito piuttosto male alla richiesta di collaborazione lanciata da Zuckerberg e nemmeno hanno tutti i torti, dato che sostanzialmente si chiedeva ai giornalisti di lavorare gratis per gli introiti di un’altra azienda. Gli inflessibili tedeschi hanno una bella pretesa: dare alla piattaforma fino a una settimana di tempo per eliminare i contenuti sensibili indicati. Schnell, insomma.

Un problema politico più che tecnologico: la disintermediazione

Un po’ di terminologia. Disintermediazione: sostantivo, femminile. Riduzione del ricorso a intermediari (come agenzie, distributori o rivenditori) nella compravendita di beni e servizi in seguito alla diffusione di Internet, che facilita il contatto diretto tra utenti e produttori (grazie Google).

Disintermediazione è una parola meravigliosa che ci porta direttamente al punto focale del problema: su Facebook, lo diceva Umberto Eco mi pare, tutti hanno diritto di parola. Su Facebook le nocciole curano il cancro, fumare fa bene, gli stupri sono trasmessi in diretta e chi più ne ha più ne metta. Sui social non esistono intermediari. Non ne hanno la scienza, la politica, l’economia, il giornalismo, il diritto e tutte le altre storiche branche del sapere umano. La democrazia applicata al sapere! Un disastro. Gli intermediari storici, gli economisti, i medici, i politici (sì, pure loro), sono rimasti isolati, circondati da un’avanguardia fatta di grandi numeri, di risposte facili e di populismi.

In tutto questo l’editoria affanna. I giornali cartacei? Non scherziamo. Gli autori canonici? Nemmeno parlarne. Pubblicazioni scientifiche? Sopravvivono in una nicchia di addetti ai lavori sempre più incapace di comunicare con il mondo di fuori.

Arriviamo a un punto: abbiamo bisogno di mediatori

Basta con gli sfoghi, cerco di arrivare a un punto. La disintermediazione è senza dubbio uno dei mali del mondo contemporaneo, genera mostri. Genera i populismi e gli estremismi, di qualsiasi colore e religione essi siano. È indispensabile prendere coscienza del problema, rimediare, trovare nuovi intermediari fra il grande pubblico e la materia degna di essere trasmessa.

Ecco, la casa editrice vecchio stampo mediava. Mediava fra il sequestro Moro e il popolo italiano, mediava fra la scoperta della fusione fredda e il riscaldamento globale, mediava fra la notizia e il pubblico. Certo non sempre perfettamente, ma il paragone con il livello di falsità e semplicionerie che circola oggi non regge. Se l’enorme problema delle fake news e dei contenuti fosse generato proprio dall’assenza forzata dei vecchi intermediari, resi inutili dal progresso tecnologico e dal mondo iper-connesso in cui viviamo?

La soluzione, se c’è, passa attraverso l’intero ripensamento dei filtri intermediari che hanno perso completamente la loro natura perché non hanno saputo capire in tempo la rivoluzione di modi e di ritmo. La riprova di quanto siano necessari è che alcuni, Zuckerberg e i suoi in testa, ne invocano il ritorno in veste di censori. Si progetta di lasciare in mano il problema del controllo dei contenuti ad organizzazioni di fact-checking come Snopes e Correctiv. Fornire ad pugno di entità un potere del genere è però evidentemente un rischio, che può portare ad aberrazioni di qualunque tipo. Meglio evitare.

Facebook è responsabile dei suoi contenuti?

Facebook (e con lui gli altri social network, beninteso) oggi non sono responsabili dei contenuti che ospitano. Dovrebbe esserlo in futuro? La risposta, va da sé, è parecchio complicata, ma attraverso di lei passa la soluzione al problema della disintermediazione.

È di questo dicembre la notizia che Zuckerberg pensa alla sua azienda come ad una media company. Dopo aver sostenuto per parecchio tempo di offrire ai suoi clienti unicamente uno strumento tecnologico, un algoritmo e un pugno di codici, il CEO ha cambiato decisamente prospettiva. Non è cosa di poco conto. Una media company ha responsabilità, una media company deve vigilare affinché i suoi contenuti siano di qualità (fino a un certo punto), una media company non può certo permettere a militanti dell’ISIS di fare proseliti attraverso i suoi prodotti (cosa effettivamente accaduta, fra l’altro).

Ecco, si ripensi lei, si ripensino i vecchi editori, ripensiamoci pure noi consumatori e lettori, troppo spesso adescati e troppo spesso più curiosi che interessati.

Redazione

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