Diffusione di foto private su Internet e responsabilità per omessa adozione di misure di sicurezza

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Recentemente ho seguito un caso di diffusione di foto private su Internet, che mi ha fatto riflettere non poco sull’esigenza di trovare una nuova dimensione alla disciplina della riservatezza dei dati personali; non perchè il D.Lgs. 196/2003 non sia sufficientemente articolato, ma in quanto praticamente sconosciuto alla Magistratura.

Con una querela, la Signora Maria (il nome è ovviamente di fantasia) chiedeva all’Autorità Giudiziaria di perseguire e punire il proprio ex fidanzato, ritenuto responsabile di aver immesso su Internet alcune foto che la ritraevano durante l’intimità, scattate, pur con il consenso della vittima, durante i loro rapporti.

Al termine della relazione, anzichè provvedere alla loro cancellazione, Mario (anche qui un nome di fantasia) li memorizzava su un cd, che successivamente smarriva, ma del quale non denunciava la scomparsa (queste, almeno, le sue dichiarazioni durante il dibattimento).

Le indagini non consentivano di accertare la fonte dell’immissione in rete del materiale fotografico, e la Procura decideva comunque di procedere nei confronti di Mario, ritenuto l’unico soggetto sospettabile.

Maria si sarebbe aspettata una condanna, che invece non c’è stata, per un’errata impostazione del capo di imputazione da parte del Pubblico Ministero.

L’aver contestato il solo reato di interferenze illecite nella vita privata non ha permesso di pervenire ad una condanna nei confronti di Mario, sostanzialmente per due motivi: il primo, a causa del metodo di diffusione delle foto, tramite un circuito di file sharing, che non consente di risalire ali autori della prima condivisione; il secondo, per il consenso di Maria alla realizzazione delle foto.

Se la Procura avesse correttamente impostato il processo sul trattamento illecito di dati personali, certamente il processo si sarebbe concluso con la dichiarazione della penale responsabilità di Mario, perchè la violazione della norma sarebbe stata parte integrante della condotta di aver conservato le foto senza custodirle adeguatamente.

La legge sulla privacy, infatti, pur non essendo applicabile all’uso esclusivamente personale dei dati, fa salva l’eccezione della comunicazione e diffusione, nel qual caso il titolare del trattamento (Mario, in questo caso) ha comunque l’obbligo di osservare le misure di sicurezza prescritte dal Codice.

Per sua stessa ammissione, Mario aveva smarrito il cd contenente le foto di Maria, e non l’aveva cifrato (la cifratura è obbligatoria per i dati sensibili, come quelli attinenti la sfera sessuale della persona).

Era quindi responsabile dell’omessa adozione delle misure di sicurezza previste dal Codice a prescindere da una sua responsabilità per la materiale diffusione delle foto.

La sola circostanza che la diffusione fosse avvenuta comportava la sua responsabilità.

Per motivi che non è dato conoscere, nonostante le insistenze della difesa, il Pubblico Ministero (di fresca nomina e troppo presuntuoso per accettare consigli) ha tratto a giudizio Mario solo per le interferenze illecite nella vita privata, con il bel risultato di non soddisfare la legittima richiesta di Maria, rimasta sola con i suoi problemi e la sua vergogna.

Casi analoghi accadono quotidianamente su Facebook, su MySpace, su YouTube, su eMule e su altri sistemi di condivisione delle informazioni; ma ad essere impreparata, sempre più spesso, non è la legge, anzi, fin troppo articolata, bensì gli operatori del diritto che dovrebbero applicarla.

Viene spontaneo chiedersi se non sarebbe ora, tra le tante riforme preannunciate, di pensare ad una specializzazione dei Tribunali per sezioni, onde evitare che sul tavolo dello stesso Giudice, nella stessa giornata, arrivino fascicoli relativi al pascolo abusivo, alle frodi informatiche, alla rapina e alla violazione urbanistica.

Gianluca Pomante

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