Danno da morte e perdita di vita: elementi costitutivi, risarcimento e criticità

Quale risarcimento spetta, ai prossimi congiunti e agli eredi, nel caso di morte di una persona per infortunio? La domanda sembra semplice, ma la risposta è complessa sia con riferimento alla natura dei danni subiti sia con riguardo all’entità del ristoro dovuto sia, infine, rispetto ai soggetti destinatari del risarcimento.

Una sentenza della Corte di Cassazione del 21 giugno 2020, la numero 11279, ci consente di fare un punto sullo stato dell’arte nella materia in oggetto. Innanzitutto, la Suprema Corte ha ribadito un principio ormai consolidato, tanto da potersi definire “granitico”, della nostra giurisprudenza: il danno da perdita della vita è diverso dal (e inconciliabile col) danno da perdita della salute. La vita è un bene giuridico autonomo spettante esclusivamente al titolare della stessa. E, soprattutto, la sua perdita è insuscettibile di essere reintegrata per equivalente. Il che significa, in altri termini: nessuno, tranne l’ucciso, potrebbe reclamare il risarcimento dell’esistenza perduta. Ergo, con la morte della vittima, questa prerogativa ovviamente si estingue e non può trasmettersi ai suoi eredi.

Di talché, nel caso in cui un soggetto muoia, i suoi successori non potranno reclamare, iure hereditario, il diritto alla vita perso dal de cuius. Sul punto, ricordiamo la decisiva e perentoria pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, nr. 15350 del 22.07.2015. Tale sentenza –  e tutte le altre, affini e conseguenti alla medesima, nonché  collocatesi successivamente sulla stessa linea interpretativa –  hanno avuto modo di ribadire, senza soluzione di continuità, il concetto sopra espresso.

Neppure l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dove si cita l’intangibile “diritto alla vita”, è idoneo a sovvertire tale indirizzo. Infatti, trattasi di una norma generica che non impone – nell’ipotesi di decesso immediato conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito – la attribuzione di una tutela risarcitoria. Il nostro sistema, quanto ai pregiudizi ristorabili ex art. 1223  c.c., si fonda sulla categoria del “danno conseguenza”. La morte estingue la personalità giuridica dell’unico soggetto titolato a far valere il diritto alla vita e pertanto il decesso, danno evento per eccellenza, non potrà essere risarcito ad alcuno: né all’unica persona teoricamente in grado di accampare pretese (giacchè, per l’appunto, estinta); né tantomeno ai di lei eredi perché il relativo diritto non è suscettibile di trasmettersi (insieme agli altri facenti parte del compendio ereditario) dal patrimonio del de cuius al patrimonio degli eredi.

Valutazioni diverse, invece, debbono farsi rispetto al diritto al risarcimento del “danno conseguenza”, di natura non patrimoniale, spettante iure proprio ai prossimi congiunti del soggetto venuto a mancare. Questo diritto può articolarsi in due “dimensioni”, per così dire, da risarcirsi unitariamente: una di carattere morale e una di carattere esistenziale. La prima dimensione, quella morale ovvero psicologica, si concretizza nella sofferenza interiore patita da una persona a causa del lutto. Essa, evidentemente, sarà di massima intensità all’atto della percezione della ferale notizia e andrà via via attenuandosi con il decorso del tempo, notoriamente “medico dell’anima”.

La seconda dimensione, invece, concerne il cambiamento in pejus delle abitudini di vita della cosiddetta “vittima secondaria”, e cioè del prossimo congiunto del soggetto deceduto. Parliamo, in tal caso, di “fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita” (Cass. 28.989/2019). Potranno dunque darsi casi di risarcimento integrale della quota parte di danno non patrimoniale (per perdita del rapporto parentale) afferente alla sofferenza interiore, accompagnati da nessun risarcimento della quota parte dello stesso danno concernente, invece, la dimensione esistenziale. Ciò accadrà laddove, per esempio, il prossimo congiunto abiti a grande distanza dalla vittima primaria e non abbia avuto a patire alcuno “scombussolamento” del proprio vissuto quotidiano per effetto dell’altrui decesso.

A questo punto, il problema decisivo diventa quello della “prova”. Come potrà, e dovrà, dimostrare la propria sofferenza chi intenda agire in giudizio per far valere il diritto al ristoro dei pregiudizi patiti a causa della morte di un proprio caro? A tal proposito, per fortuna, la giurisprudenza (sia di merito che di legittimità) ha recentemente fatto giustizia di tutta una serie di indirizzi interpretativi assurdi consistenti nell’accollare sul danneggiato l’onere di una prova per eccellenza “diabolica”: e cioè il dovere (impossibile da adempiersi) di dimostrare l’intensità del proprio dolore.

Oggi sono più che sufficienti a comprovare il danno da perdita del rapporto parentale le cosiddette “presunzioni”. Si tratta di quel mezzo di prova consistente nel derivare la conoscenza di un fatto ignoto a partire dalla dimostrazione di un fatto noto. Ecco allora che il giudice, proprio in base a elementari valutazioni di carattere presuntivo, potrà ritenere sussistenti entrambi i profili di danno non patrimoniale succitati, o anche uno solo di essi. E lo farà, innanzitutto, ricorrendo ai seguenti dati: 1) maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente more uxorio, figli, genitore, sorella, fratello, ascendenti, zii, cugini etc.); 2) età della vittima; 3) età dei sopravvissuti; 4) presenza di altri componenti del nucleo familiare in grado di attutire vicendevolmente gli effetti del lutto.

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Insomma, è da censurarsi la prassi, purtroppo non infrequente, di negare il risarcimento per “mancanza di prove” e pur in presenza di inoppugnabili risultanze certificate anagraficamente. Infatti: “Deve evidenziarsi che il danno lamentato incidendo esclusivamente sulla psicologia e sugli affetti non è riconoscibile, se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, ravvisabili anche in semplici allegazioni e documentazioni valutabili con il criterio della normalità, senza necessità di una prova in senso tecnico a dimostrazione del dolore dei superstiti” (Tribunale di Rieti, nr. 359 del 04.05.19).

In tutto ciò, non potrà escludersi il diritto risarcitorio non solo dei parenti più o meno stretti, ma anche di soggetti non legati al defunto da una relazione parentale “ufficiale” (ad es: rapporto affettivo con i figli del coniuge o del convivente).

Per concludere, un ultimo aspetto da considerare è quello del danno subito dalla vittima primaria nel periodo intercorso tra le lesioni patite e il decesso. In tal caso, bisogna distinguere tra: a) danno morale terminale (altrimenti definito “da lucida agonia” o “catastrofale”); b) danno biologico terminale. Entrambi possono trasmettersi iure hereditario e, dunque, possono essere fatti valere dagli eredi del deceduto.

Il primo si concreta nel pregiudizio consistito dalla percezione consapevole dell’imminente approssimarsi della morte e, pertanto, richiede la lucida coscienza dell’exitus. Può essere risarcito anche in presenza di intervalli temporali brevissimi. Basta, in altre parole, che anche per pochi minuti l’infortunato sia stato in grado di capire a quale sorte tragica egli andava incontro. Il secondo, invece, è un vero e proprio danno biologico temporaneo. Esso, però, data la sua intensità e peculiarità, andrà ristorato ben oltre i limiti tabellari, e a discrezione equitativa del giudice, valutate tutte le circostanze del caso concreto. Tuttavia, a differenza del primo richiederà una sopravvivenza minima, in genere individuata dalla giurisprudenza in almeno ventiquattro ore.

Avv. Francesco Carraro

Francesco Carraro

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