Lubanga, a cui sono stati inflitti 14 anni di reclusione per l’arruolamento nel suo esercito di milizie paramilitari di almeno 3.000 bambini soldato (secondo i dati forniti da diverse organizzazioni per i diritti umani) di età compresa tra gli 8 ed i 15 anni, è il primo criminale di guerra condannato dalla Corte internazionale dell’Aia in via definitiva. Il suo processo, iniziato il 26 gennaio 2009, aveva visto il verdetto di condanna in primo grado (emesso il 14 marzo scorso) richiedere per l’imputato una condanna detentiva tra i 25 ed i 30 anni (ridotti a 20 nel caso in cui Lubanga avesse fatto pubblica ammenda).
La sentenza finale (qui il video integrale) effettivamente comminata dal Tribunale, con i suoi 14 anni di reclusione inflitti, ha dunque fatto prevalere la linea “minimalista” in seno alla Corte, con la decisione del primo Procuratore generale, Luis Moreno Ocampo, di concentrarsi “solo” sul crimine del reclutamento dei bambini soldato. Su questo, infatti, vi erano i maggiori indizi di colpevolezza e, dunque, le maggiori probabilità di successo per inchiodare l’imputato alle proprie responsabilità.
Ma le associazioni che rappresentano le vittime del conflitto nell’Ituri (la vasta regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo, vero e proprio mosaico di etnie), che ha causato tra il 1998 ed il 2003 la morte di quasi 5 milioni e mezzo di persone (buona parte delle quali a causa di carestie ed epidemie) oltre ad altri milioni di profughi di cui nessuno è in grado di dare una stima precisa, sono rimaste in parte deluse, con una riparazione ottenuta solo a metà. C’erano altri crimini di guerra, oltre al già di per sé odioso reclutamento di bambini soldato, sottratti alle loro famiglie con la violenza ed il ricatto, su cui esse chiedevano che fosse fatta luce e giustizia.
In primo luogo, è stata criticata la mancata estensione delle indagini al tragico fenomeno delle violenze sessuali, che hanno permeato di sé l’intero conflitto pluriennale nelle martoriate regioni di confine tra la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda, il Ruanda ed il Burundi. Il Presiding judge del collegio giudicante, Adrian Fulford, in occasione della lettura della sentenza di condanna per Lubanga non ha mancato di criticare il Procuratore Ocampo per questa grave omissione.
Nella sentenza di incriminazione di Lubanga non sono stati presi seriamente nella dovuta considerazione nemmeno gli efferati episodi di violenza collettiva operati dall’ala militare dell’Unione dei patrioti Congolesi, cioè le cosiddette “Forze Patriottiche per la Liberazione del Congo”. Le FPLC, fondate da Lubanga nel settembre 2002 e costituite a maggioranza da uomini dell’etnia Hema-Gegere (come il loro leader), furono il braccio armato dell’UPC che dal 2002 fino al marzo del 2003 (quando vennero respinte dall’esercito ugandese) prese il controllo di Bunia, città capoluogo del distretto dell’Ituri, ricco di miniere d’oro, chiedendo che il Governo centrale di Kinshasa (la capitale della RDC) riconoscesse la vasta provincia come una regione autonoma.
Alla base di tutto, come spesso accade dietro il velo degli scontri interetnici, la vera posta in gioco era (ed è) il controllo delle immense ricchezze minerarie della Repubblica Democratica del Congo. Grande paradosso di uno degli Stati più poveri ma, al tempo stesso, potenzialmente più ricchi del pianeta.
Durante quei mesi a cavallo tra 2002 e 2003, i paramilitari dell’UPC-FPLC, oltre a costringere all’arruolamento bambini soldato, perpetrarono ai danni della popolazione rivale Lendu “massacri etnici, uccisioni, torture, stupri e mutilazioni”, secondo il rapporto stilato dall’organizzazione umanitaria Human Rights Watch. Tra il novembre 2002 ed il giugno 2003, l’UPC avrebbe ucciso in diversi episodi 800 civili per motivi etnici nella regione delle miniere d’oro di Mongbwalu. In particolare, nelle sole due settimane tra il 18 febbraio ed il 3 marzo 2003, le milizie di Lubanga sono accusate di aver raso al suolo 26 villaggi rurali, causando la morte di almeno 350 persone e costringendone altre 60.000 (senza riguardo alcuno per vecchi, donne e bambini) a lasciare le proprie case. Fatti per i quali si potrebbe senz’altro parlare di atti di vero e proprio genocidio e pulizia etnica, se si fosse in presenza di quelle prove schiaccianti richieste dalla Corte dell’Aia.
Quanto ai bambini soldato, sempre secondo Human Rights Watch, Lubanga avrebbe ordinato ad ogni famiglia dell’etnia Hema sotto il suo controllo di sostenere lo sforzo militare dell’UPC con una “donazione volontaria”, che fosse denaro, un capo d’allevamento o, altrimenti, un figlio (sotto i 15 anni) da arruolare nel suo esercito.
Il 17 marzo 2006 Lubanga, già detenuto dal 2005 nelle prigioni di Kinshasa per l’uccisione da parte dei suoi uomini di 9 caschi blu bengalesi dell’ONU dispiegati in missione di pace in Congo, è stata la prima persona ad essere arrestata sulla base di un mandato di cattura della Corte penale internazionale, con la collaborazione e la consegna all’Aia del criminale da parte delle autorità congolesi. Sarà ora Lubanga stesso a scegliere uno dei sei Paesi che si sono dichiarati disponibili ad accogliere il condannato nelle proprie carceri per lo sconto della pena: Austria, Belgio, Finlandia, Gran Bretagna, Mali e Serbia.
Nella condanna di Lubanga, che nel corso del processo si è sempre dichiarato innocente, il giudice accusatore Fulford è riuscito ad ottenere che fossero considerate come aggravanti a carico della posizione dell’imputato il suo alto ruolo di leader politico e militare, il suo grado di livello sociale e di educazione. 51 anni, sposato con 7 figli e laureato in Psicologia (!), sembra di poter intravvedere in questo criminale di guerra congolese una contemporanea macabra riedizione di quella “banalità del male” senza tempo, già ravvisata da Hannah Arendt nella persona di Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS ligio esecutore degli ordini superiori, prototipo del grigio burocrate dispensatore di morte in pace con la propria coscienza.
Assieme a Lubanga sono attualmente detenuti all’Aia altri due capi ribelli, suoi avversari nel conflitto dell’Ituri: Germain Katanga e Mathieu Ngudjolo Chui. Ancora a piede libero è invece Bosco Ntaganda, ex vice capo delle FPLC e tra i maggiori responsabili delle violenze nella regione, di cui dal 2006 la CPI sta tentando di ottenere l’arresto (ma invano, a causa evidentemente dei forti appoggi politici di cui può ancora disporre), per gli stessi crimini di guerra di Lubanga. Attualmente sarebbe a capo di una nuova rivolta che sta insanguinando la RDC nord-orientale.
Ancora tutto da vedere, infine, cosa il Tribunale deciderà in merito al risarcimento delle 123 vittime dei crimini attribuiti a Lubanga che sono state chiamate a partecipare a tutte le fasi del processo, secondo quanto previsto dallo Statuto della Corte. Fermo restando che nessun risarcimento economico potrà mai ripagare completamente il prezzo di vite spezzate, o segnate per sempre dalla violenza.
Il processo Lubanga, pur con i gravi limiti delineati, rappresenta comunque un importante passo avanti, anche a livello simbolico, per la Repubblica Democratica del Congo, che si sta incamminando sulla faticosa strada della normalizzazione e della riconciliazione nazionale tra le diverse etnie e religioni che la compongono. Un intero Paese alla ricerca di quella pace che, dopo l’indipendenza dal Belgio (1960), sembra aver perduto con il “peccato originale” costituito dall’omicidio del suo primo (e per oltre 40 anni unico) Presidente democraticamente eletto, Patrice Lumumba, nell’ormai lontano 1961.
Un po’ di luce e di giustizia è stata gettata su una pagina oscura della storia africana, uno dei tanti conflitti dimenticati dal mondo intero. Compreso il nostro Occidente, che troppo spesso conferma la propria ipocrisia diplomatica, assumendo un atteggiamento interventista solo in quelle situazioni da cui può trarre, con poco rischio, una sufficiente e rapida contropartita economica. Si veda – tra i tanti – soltanto l’ultimo caso, eclatante e sotto gli occhi di tutti, della politica dei “due pesi – due misure”: quello tenuto da una parte in Libia e, dall’altra, ancora oggi, in Siria.
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