L’imprenditore dovrà inoltre risarcire i danni morali subiti dalla coppia del quarto piano che precedentemente lo aveva denunciato, contattando altresì un tecnico dell’Arpa per misurare i decibel fastidiosi. “Rumori non sopportabili erano percepiti negli appartamenti anche a finestre chiuse”, avevano fatto notare moglie e marito. In tal modo, l’esperto dell’agenzia regionale per la protezione ambientale, effettuando una rilevazione nell’appartamento del quarto piano, aveva riscontrando “il valore di 56 decibel“. L’imputato ha sostenuto, senza tuttavia ottenere successo, che “per giurisprudenza consolidata, il reato era integrato solo da una rumorosità idonea ad arrecare disturbo ad una pluralità di persone e non ai soli vicini: nel caso concreto questo non era stato accertato, e dunque veniva a mancare un elemento essenziale della fattispecie penale”.
La Suprema Corte ha invece controbattuto che per “la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori” è sufficiente “l’incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l’interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare”. La decisione degli ermellini ha pertanto convalidato la pronuncia del 2 maggio 2012, emessa dal Tribunale di Cosenza, con la quale la contravvenzione era stata inflitta con la sospensione della pena e la non menzione della condanna con la concessione delle attenuanti generiche.
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