Tutela patrimonio culturale immateriale: dalla Puglia, un primo, seppur limitato, segnale

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La proposta 123A-IX, presentata dal Consigliere regionale Sergio Blasi del gruppo Partito Democratico, e passata all’unanimità nella seduta della VI Commissione del 05.07.12, intende, come si evince dal titolo e come si legge nella relazione iniziale, “mettere in campo una serie di interventi rivolti al sostegno dell’insieme variegato di soggetti che, a vario titolo (…) operano sul territorio con iniziative di salvaguardia e promozione delle musiche e delle danze tradizionali”. Altresì l’intento della proposta di legge in commento è quello di salvaguardare la “memoria musicale”, sostenendo la ricerca e la pubblicazione di “documenti originali”, ossia le registrazioni delle “performance degli anziani cantori”, ed infine creando “una rete di archivi multimediali” ove conservare e rendere fruibili i materiali raccolti. Tutto ciò “in accordo con le disposizioni della Convenzione dell’Unesco sulla salvaguardia dei patrimoni immateriali, approvata a Parigi il 17 ottobre 2003 e ratificata dal Parlamento Italiano con la legge n. 167 del 27 settembre 2007”.

La proposta di legge, suddivisa in 10 articoli, contiene una prima parte in cui è definito l’oggetto della legge (art. 1), mentre il resto dell’articolato si riferisce agli adempimenti da parte della Regione (art. 2, Programma pluriennale di intervento; art. 3, Albo regionale, artt. 4, 5 e 6, Contributi a favore di gruppi, associazioni e fondazioni, degli Enti locali nonché dell’editoria specializzata; art. 8, in riferimento all’approvazione del piano annuale di attribuzione dei contributi e della vigilanza in relazione alla loro attuazione; art. 9, Vincolo di destinazione dei contributi; art. 10, Finanziamento degli interventi), ad eccezione dell’art. 7 che disciplina gli adempimenti dei soggetti destinatari dei contributi di cui ai precedenti artt. 4, 5 e 6.

Prima di passare al commento della legge occorre, seppur brevemente, partire da alcune considerazioni preliminari.

E’ ormai risaputo che l’UNESCO, con la Convenzione sopra citata, ha aperto le porte alla tutela nazionale ed internazionale del patrimonio culturale immateriale DemoEtnoAntropologico (d’ora in avanti “DEA”).

L’Italia, aderendo ad entrambe le Convenzioni, ha modificato il Codice dei beni culturali inserendo nel suo corpus normativo l’art. 7/bis, rubricato Espressioni di identità culturale collettiva, il quale, come ho già avuto modo di dire in un altro articolo pubblicato su Codesta pregevole rivista on-line, ha operato un (seppur sommario) riconoscimento culturale della produzione immateriale popolare, ancorando la sua tutela alla materialità ex art. 10 del Codice dei Beni culturali.

Nell’ottica del riparto di competenze tra Stato e Regioni, operato dall’art. 117 Cost., la materia della tutela dei beni culturali immateriali spetterebbe allo Stato, mentre gli interventi di valorizzazione e promozione sono di competenza delle Regioni.

Tuttavia, nella materia Governo del territorio di cui al comma 3 dell’art. 117 Cost., le regioni, secondo la nota sentenza 232/2005 della Corte Costituzionale, possono prevedere misure di “tutela non sostitutive di quelle statali, bensì diverse ed aggiuntive”, con ciò permettendo loro di ampliare il proprio raggio di tutela nei confronti delle peculiarità locali.

Dunque, alla luce di ciò e sulla scorta del principio di cooperazione, sarebbe stato auspicabile fare riferimento, nell’articolo 1, alla normativa interna e all’art. 7/bis in particolare, proprio alla luce del fatto che la materia della tutela dei beni culturali immateriali, secondo il comb. disp. degli artt. 7/bis D.Lgs. n. 42/2004 e 117.3 Cost., è materia concorrente e che si muove nell’ottica della leale collaborazione tra Stato e regioni.

Da qui discende una forte criticità, direi quasi un peccato originale che colpisce la pregevole proposta di legge oggi in commento. Mi riferisco al concetto di riconoscimento.

A rigor di logica, prima di procedere alla tutela del patrimonio culturale immateriale occorre riconoscerlo, altrimenti si rischierebbe di tutelare qualsiasi produzione, anche quelle che non rientrano nei crismi della culturalità così come voluto dall’UNESCO.

Riconoscimento è termine polisenso. In una prima accezione che attiene al piano scientifico, esso è riferibile all’esito dell’attività di ricerca e di studio che ha condotto al rinvenimento, in un oggetto, di determinate caratteristiche che ne implicano l’interesse culturale (dunque, ad es., il riconoscimento del valore culturale ad una registrazione di un canto tradizionale da parte della scienza antropologica). In una seconda accezione che attiene al piano giuridico, riconoscimento è individuazione formale del bene secondo i modi e per gli effetti di legge. Ambedue i significati sono pertinenti alla funzione de qua, poiché descrivono due indefettibili momenti di un unico percorso, al termine del quale l’oggetto acquisisce quel particolare status di “bene culturale” che ne connoterà le successive vicende. Dunque il riconoscimento dal punto di vista extragiuridico è un processo che spetta alla scienza demoetnoantropologica, mentre dal punto di vista giuridico è rappresentato proprio dalla conformità del bene a quanto richiesto dall’art. 7/bis del Codice dei Beni culturali. Una norma non considerata dalla proposta di legge in oggetto ma che ha efficacia giuridica nell’Ordinamento, certamente più di quanto ne abbia una Convenzione.

Difatti non può sottacersi un ulteriore vizio formale che si rinviene proprio nel primo articolo, il quale basa il proprio operato normativo “(…) in attuazione della convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (…)”.

Anzitutto la Convenzione è rivolta agli Stati firmatari, e non alle loro articolazioni interne. Difatti l’art. 11 della Convenzione del 2003 stabilisce che Ciascuno Stato contraente “adotterà i provvedimenti necessari a garantire la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale presente sul suo territorio” [comma 1, lett.a)] e “individuerà e definirà i vari elementi del patrimonio culturale immateriale (…) con la partecipazione di comunità, gruppi e organizzazioni non governative rilevanti” [lett.b)].

Dunque la legge in commento non può essere adottata “in attuazione della convenzione”, in quanto la convenzione è un atto giuridico negoziale valevole tra le parti firmatarie; da ciò ne discende che l’attuazione di un siffatto accordo spetta solo a chi ha partecipato ad esso, dunque allo Stato italiano.

Entrando nel merito della proposta di legge, non può sottacersi che il riferimento alla Convenzione UNESCO del 2003 appare una forzatura.

Difatti l’art. 2 comma 1 della Convenzione così definisce il patrimonio culturale immateriale: “(…) le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale (…)”.

Orbene appare del tutto evidente come le musiche e le danze popolari di tradizione orale siano solo una piccola parte del patrimonio culturale immateriale di un certo territorio, dunque anche in questo senso, lasciando per un momento da parte le valutazioni giuridiche, la proposta di legge non può fare riferimento alla Convenzione UNESCO, la quale chiede di proteggere tutta la produzione culturale immateriale e materiale di un certo territorio.

Difatti le associazioni AISEA e SIMBDEA (che si occupano, a vario titolo, della salvaguardia del patrimonio culturale DEA) hanno concordato, nel 2007, una definizione del concetto di “beni DEA”, in linea con quanto espresso dall’UNESCO, inserendo nella definizione “cerimonie, riti, feste sacre e profane, musiche e canti, danze, poesie, fiabe, miti e leggende, proverbi, giochi, memorie, storie di vita, dialetti e parlate, saperi, pratiche, etc.”, e curandosi di specificare che “la componente immateriale, da un lato, consente di attribuire pieno significato ai beni DEA mobili e immobili, che altrimenti resterebbero inconoscibili, e al tempo stesso individua una categoria di beni in sé, sicuramente specifica di questo settore del patrimonio culturale, che può essere in varia misura connessa con le produzioni materiali oppure da esse del tutto slegata”.

Anche a voler ammettere che la volontà politica sia quella di tutelare le sole musiche e danze e che, dunque, il richiamo alla Convenzione UNESCO sia solo una mera formula stilistica, non può sottacersi come l’intervento di tutela della normativa in itinere sia smorzato ed incompleto, in quanto non tiene conto dell’elemento materiale dell’oggetto della sua tutela.

In altre parole, il patrimonio culturale immateriale non può trovare una tutela piena senza il patrimonio culturale materiale che lo ritrae e lo completa. Per fare un esempio, non è possibile tutelare il ballo e la musica della tarantella senza fare riferimento alla tutela degli strumenti musicali, materialmente e simbolicamente intesi, quali tamburello, organetto, mandolino, etc.

Del resto anche l’UNESCO, nell’art. 2.2 della Convenzione, ha specificato chiaramente che il Patrimonio culturale immateriale si manifesta anche nel settore dell’artigianato tradizionale [lett. d)]. Dunque appare un controsenso tutelare la musica popolare senza tutelare i soggetti che in qualche modo la rendono possibile, attraverso la costruzione di strumenti musicali tipici e legati indissolubilmente al territorio, alla sua storia, tradizioni e, ovviamente, alla musica e alla danza.

Dunque, in tal senso, la normativa incontra un limite ontologico e funzionale: anzitutto decontestualizza l’oggetto dell’intervento di tutela, slegando le danze e le musiche popolari dal loro significato d’uso originario e dai simboli che le completano. In secondo luogo opera una confusa definizione concettuale, con ciò vanificando gli sforzi effettuati sia dalla scienza demoetnoantropologica sia dalla scienza giuridica che, negli anni, hanno evidenziato le differenze tra tutela, valorizzazione e promozione, nonché tra bene e attività culturale.

Basti considerare che, nonostante il titolo della proposta di legge, al suo interno non v’è alcuna formula né alcun richiamo ad altre norme e/o atti extragiuridici che diano contezza delle differenze definitorie. Tale distinzione è quanto mai necessaria, proprio perché i beni sono meritevoli di tutela, mentre le attività solo di interventi di promozione ed organizzazione, così come imposto dall’art. 117.3 Cost.

ndt 2011L’art. 4 della proposta di legge in commento, per fare un esempio, al comma 1, lett. b), finanzia lo “svolgimento di attività culturali e di spettacolo fuori dai confini regionali”, dunque “attività culturali”; mentre la lett. d) finanzia la “realizzazione di cd e dvd contenenti produzioni musicali originali dei gruppi”; ma che vuol dire originali? Si tratta di “beni” o “attività” culturali? E ancora, l’intervento può definirsi di “tutela”, di “valorizzazione” oppure di “promozione”?, Ancora, l’art. 5, comma 1 lett. b) provvede a finanziare gli Enti Locali “per la realizzazione di festival, raduni e analoghe iniziative di spettacolo (…)”. Anche qui si torna a parlare di “promozione”, non di tutela, mentre una timida apertura al concetto di tutela si ha con il comma 1 lett. a) dell’art. 5, con il quale la Regione finanzia gli Enti Locali “per la realizzazione di archivi e biblioteche multimediali specializzati, anche a partire da percorsi di ricerca sul campo, in coordinamento e connessione con il Sistema archivistico regionale e il Sistema bibliotecario regionale”. Tale pregevole norma appare essere l’unica che si avvicini al concetto di tutela, anche se – in parziale ottemperanza a quanto richiesto dall’UNESCO – si limita a tutelare i supporti materiali, senza estendere la tutela ai beni culturali immateriali vivi, presenti sul territorio, perdendo così la possibilità di estendere la tutela al patrimonio culturale immateriale vivo e distinguerla dalle azioni di promozione delle attività culturali (la distinzione rappresenta il vero problema che l’UNESCO ha egregiamente affrontato e che la Regione Puglia non ha saputo o voluto cogliere).

Eppure di normative regionali in materia ve ne sono diverse. Penso, ad esempio, alla L.R. Liguria N. 32 del 02 maggio 1990 (Modificata dalla L.R. Liguria 17 dicembre 1998 n. 37), rubricata “Norme per lo studio la tutela la valorizzazione e l’ uso sociale di alcune categorie di beni culturali e in particolare dei dialetti e delle tradizioni popolari della Liguria”, che ha operato una pregevole classificazione del patrimonio immateriale DEA, inserendo, nell’art. 2, tra i beni tutelati, i “patrimoni linguistici autonomamente riconosciuti in porzioni del territorio regionale (…)” [comma 1, lett. a)]; “rime popolari filastrocche fiabe proverbi e ritornelli ricordi e memorie riguardanti anche l’ alimentazione e la medicina popolare il tutto espresso in lingua o in dialetto in forma orale o scritta ma inedita” [comma 1, lett. b)]; “canti e musiche strumentali tramandati in forma orale e danze popolari di tradizione documentabile” [comma 1, lett. c)]; “feste riti e credenze giochi e passatempi popolari” [comma 1, lett. d)].

La L.R. appena menzionata è una delle poche leggi organiche in materia e rappresenta – da tempi non sospetti – un importante esempio di salvaguardia del patrimonio culturale locale.

La Puglia, pur vantando un vastissimo patrimonio culturale immateriale, finora non ha mai disciplinato la materia; la proposta di legge in commento sicuramente rappresenta un buon inizio ma ancora non può dirsi incisiva, mostrando di non avere dimestichezza con i concetti di tutela, valorizzazione, promozione né con le differenze sostanziali tra bene ed attività culturale. Tuttavia è significativa l’apertura operata dall’art. 5.1 lett. a) in riferimento alla tutela dei supporti contenenti le testimonianze di identità culturale, anche se va evidenziata ancora una volta una importante criticità, in riferimento alla loro catalogazione.

Innanzitutto va detto che la catalogazione è l’attività di registrazione, descrizione e classificazione di tutte le tipologie di beni culturali. Si tratta di individuare e conoscere i beni, documentarli in modo opportuno e archiviare le informazioni raccolte secondo precisi criteri.

In secondo luogo va evidenziato che l’art. 17.1 del Codice dei Beni Culturali (mai menzionato nella proposta in commento) stabilisce che “Il Ministero, con il concorso delle Regioni e degli altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei beni culturali e coordina le relative attività”.

Infine non può sottacersi che nel 2001 lo Stato, le Regioni e le province autonome hanno siglato l’Accordo tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e le Regioni per la catalogazione dei beni culturali e ambientali, che stabilisce una serie di obiettivi comuni in materia, prevedendo, fra l’altro, l’unificazione delle metodologie di catalogazione. La premessa, e soprattutto l’art. 2 dell’Accordo, sottolineano il valore conoscitivo attribuito alla catalogazione: “La catalogazione costituisce lo strumento conoscitivo basilare per il corretto ed efficace espletamento delle funzioni legate alla gestione del territorio ai fini del conseguimento di reali obiettivi di tutela ed è strumento essenziale di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobile e mobile nel territorio e nel museo, nonché per la promozione e la realizzazione delle attività di carattere didattico, divulgativo e di ricerca”. Diverse Regioni hanno già approntato, nel rispetto dell’Accordo, i propri sistemi informativi, ad esempio, la Lombardia (SIRBEC- Sistema informativo regionale beni culturali), le Marche (SIRPAC – Sistema informativo regionale per il patrimonio culturale), il Lazio (SIT – Sistema territoriale informativo dei beni culturali e ambientali), mentre la Puglia non ha ancora adeguato i propri strumenti di catalogazione a quelli nazionali, con ciò rendendo ancor più difficile il coordinamento con le altre realtà. Un’apertura in tal senso sarebbe auspicabile nella proposta di legge in commento.

Ancora, è significativo lo stanziamento annuale di € 50.000,00 (art. 10) per gli interventi di cui agli artt. precedenti, anche se va evidenziato come tale cifra, a fronte delle potenziali domande, potrebbe risultare inadeguata e frustrare le aspettative dei soggetti coinvolti. Sicuramente la Regione Puglia, successivamente all’entrata in vigore della legge, provvederà ad emanare dei regolamenti inerenti i criteri di accesso alle somme finanziate, tuttavia sarebbe auspicabile prevedere un organismo di valutazione, così come previsto dalla già citata L.R. Liguria n. 32/1990, la quale ha istituito un “Comitato scientifico” composto in vario modo da membri di nomina politica ed accademica (tre membri eletti dal Consiglio regionale scelti fra personalità di indiscussa competenza e professionalità nei campi della ricerca etnologica e linguistica locale e della produzione e promozione culturale di attività dialettali; tre esperti designati dal Rettore dell’Università degli Studi di Genova fra gli studiosi già operanti anche al di fuori dell’ambito universitario rispettivamente nei campi linguistico, letterario, etnoantropologico ed etnomusicologico), in cui è prevista anche la presenza di un dirigente del Servizio Beni e strutture culturali e del dirigente addetto al Centro regionale di documentazione (art. 3, comma 1).

Poiché l’intento della proposta di legge regionale pugliese è quello di “istituire un albo regionale dei soggetti che svolgono attività musicali popolari” (art. 3), allora sarebbe il caso di nominare un organismo che quantomeno dia, nel silenzio della legge, un significato chiaro al termine “popolare” e una serie di criteri in grado di orientare i potenziali destinatari delle norme, altrimenti si correrebbe il rischio di finanziare qualsiasi proposta musicale, anche quelle che, contrariamente alla ratio della legge, non rientrano nel concetto di “tradizione orale”.

Infine, per completezza, va messa in rilievo una ulteriore carenza, che in qualche modo cozza proprio con l’art. 2 dello Statuto della Regione Puglia, il quale così stabilisce: “La Puglia riconosce la propria identità nel territorio e nelle tradizioni regionali che costituiscono risorsa da tramandare alle future generazioni”.

Ebbene, la tutela del patrimonio culturale parte proprio dalla diffusione della conoscenza alle nuove generazioni, ed in questo quadro una tutela efficace si può realizzare anche attraverso l’insegnamento delle tradizioni popolari negli istituti scolastici, un’attività, questa, posta in essere da alcuni comuni virtuosi ma non considerata nella legge in commento, nonostante lo Statuto stabilisca ciò e nonostante l’UNESCO, nella sua Raccomandazione per la salvaguardia della Cultura e del Folklore del 1989 (propedeutica alla Convenzione del 2003) abbia chiesto ai soggetti interessati “l’insegnamento e lo studio della cultura tradizionale in modo appropriato”.

Vero è che l’art. 4.1 lett. b) prevede finanziamenti per “la realizzazione di percorsi di formazione e approfondimento della conoscenza delle pratiche musicali e coreutiche tradizionale, con particolare attenzione al coinvolgimento degli anziani depositari dei saperi tradizionali”, lasciando intendere che saranno finanziati stages e corsi effettuati da soggetti privati, senza specificare se questi saranno gratuiti ovvero a pagamento (la dicitura “senza scopo di lucro”, di cui all’art. 3, non coincide con “libera fruizione” degli eventi organizzati da soggetti privati), ma sarebbe auspicabile prevedere tale norma all’interno dell’art. 5 (“Contributi a favore di Enti Locali”), chiedendo alle Amministrazioni comunali di rendere quantomeno obbligatorio e gratuito l’insegnamento delle tradizioni popolari nelle scuole primarie e/o attraverso la predisposizione di corsi liberamente fruibili.

In conclusione di questo scritto, ritengo che la proposta di legge in commento sia sicuramente un ottimo punto di partenza per aprire un dibattito sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale della Puglia, tuttavia le criticità sollevate sinora lasciano aperto il dubbio se la normativa sia davvero volta alla “tutela” o, piuttosto, alla “promozione” e se gli interventi previsti dalla legge in commento siano davvero in grado di salvaguardare la memoria storica.

Sul fatto che, allo stato attuale, le danze e le musiche proposte nelle piazze della Puglia (e del Salento in particolare) siano popolari (il cui significato non è stato chiarito dalla norma) o meno, attinenti alla tradizione o meno, “contaminati” o meno, lascio che si pronunci la scienza demoetnoantropologica; del resto il giurista non può cadere nella trappola di andare alla ricerca del concetto pregiuridico di “popolare”, “tradizione” o “contaminazione”, o meglio della nozione che di essi hanno i non giuristi, al fine di verificarne il grado di tenuta rispetto all’ordinamento giuridico positivo, ecco perché non ritengo opportuno (anche se sarei tentato di) dare un giudizio sull’attuale fenomeno di folk-revival e sulle sue interazioni con il marketing territoriale, magari nascondendolo tra le valutazioni di carattere giuridico. Auspico, invece, di trovare presto, seduti sullo stesso tavolo de iure condendo, la politica, l’antropologia e la scienza giuridica, mossi dal comune intento di operare una tutela del patrimonio culturale materiale e immateriale scevra da ogni influenza contingente che, spesso, è più dannosa del vuoto normativo.

Giovanni D’Elia

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