Il bollettino medico parla di centinaia di persone trasferite negli ospedali in seguito al pugno duro deciso dal governo di Madrid. E così, quella che poteva essere un’occasione di riavvicinamento, di presa di coscienza di entrambe le posizioni, è diventata lo spartiacque di una crisi dagli sviluppi tuttora ignoti e spaventosi.
Che la giornata di ieri non stesse volgendo al meglio, in termini di ordine pubblico, lo si era inteso da settimane, quando la posizione del premier Mariano Rajoy si era via via irrigidita verso le rivendicazioni autonomiste della Catalogna, un territorio che, in base alla legislazione spagnola, gode già di ampi spazi di manovra. Chiaro esempio ne è il Parlamento catalano: noncurante dei moniti recapitati dai palazzi madrileni, nei mesi scorsi i rappresentanti più accesi si erano affrettati a confermare la data della pubblica consultazione, stampando le schede, trovando i volontari e occupando locali pubblici a tempo di record.
Una prova di forza, insomma, malgrado le reiterate accuse del governo di bollare come “illegittimo” il referendum promosso da Carles Puigdemont, presidente catalano e leader populista pro indipendenza, che non ha lesinato comizi e apparizioni televisive per sostenere la causa.
Una campagna ossessiva, la sua, alimentata da avvenimenti come il recente attentato della Ramblas – in cui lo stesso Puigdemont e le autorità catalane avevano comunicato all’esterno usando la lingua locale e non il castigliano istituzionale – e trovando sponda in testimonial di grande impatto mediatico, come l’allenatore del Manchester City Pep Guardiola o la colonna difensiva del Barcellona, Gerard Piqué.
Malgrado tutte queste premesse, a votare è andato soltanto il 42% degli aventi diritto, dato che – sebbene non esaustivo – oggi darebbe la possibilità a Madrid di certificare un flop e di tentare un riavvicinamento fino a due giorni fa quasi impossibile.
Ma la chance di gettare un ponte tra Catalogna e il resto della Spagna è andata in fumo ieri, quando i poliziotti hanno fatto irruzione nei seggi, hanno assalito i manifestanti con manganelli sparando anche proiettili di gomma. Un’azione certosina e, con ogni probabilità ben studiata, ma che non dà alcun alibi al governo madrileno.
Prima, dal punto di vista legale, la bilancia pendeva infatti dalla parte delle istituzioni statali, poiché gli atti legislativi locali non avrebbero in alcun modo potuto emendare le disposizioni costituzionali, secondo cui questa rimaneva una iniziativa fuorilegge. Ora, però, il piano pare essersi completamente ribaltato.
Ricorrendo a muscoli e manette, infatti, Rajoy ha certificato la sconfitta della linea nazionalista, ricompattando un fronte che dalle urne era uscito assai meno uniforme di quanto le recenti intemerate degli autonomisti lasciassero presagire. Del resto, anche il voto che aveva indetto il referendum era passato all’assemblea catalana con 72 voti a favore su 135, dando il primo, forte indizio che a Barcellona e dintorni i distinguo non fossero pochi sull’argomento.
Insomma, l’unico a non essersene accorto pare fosse proprio Rajoy, che ha scioccamente ceduto alla provocazione reagendo con l’istinto di un caudillo in disgrazia, anziché usare la razionalità da statista che la situazione richiedeva. Ormai, tacciare il referendum come una “farsa” non conta più: se la votazione si fosse svolta in pace, forse oggi in Catalogna si sarebbero svegliati un po’ meno convinti della loro unità.
Ma il colpo di grazia all’unità nazionale è arrivato dalla furia governativa: una risposta sconsiderata che allarga ancora di più il baratro tra Spagna e Catalogna, facendo tremare l’intera comunità internazionale. Rajoy, insomma, di fronte a questa duplice figuraccia, non ha scelta: rimettere immediatamente il mandato da primo ministro nelle mani di re Felipe.
Fonte immagine: Eunews
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