L’utilizzo dei permessi retribuiti previsti dalla Legge numero 104/1992 per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile può costituire giusta causa di licenziamento.
Questa la tesi espressa dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 2157/2025 sul caso di un dipendente reo di essersi dedicato, a più riprese, ad attività sportive, accertate da un’agenzia investigativa, nel corso delle due ore di permesso retribuito.
Ecco i dettagli della sentenza.
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Le regole sui permessi 104
A norma della Legge 104/1992 (articolo 33, comma 3), il lavoratore dipendente pubblico o privato ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito dall’INPS, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno.
In generale il compenso per le giornate di assenza è anticipato in busta paga dal datore di lavoro per conto dell’Istituto, salvo poi essere recuperato in sede di versamento dei contributi con modello F24.
Possono beneficiare dei permessi, previa domanda all’INPS, i seguenti familiari del soggetto con disabilità:
- Genitori;
- Coniuge o parte dell’unione civile;
- Convivente di fatto;
- Parenti e affini entro il secondo grado ovvero entro il terzo grado se i genitori o il coniuge (o la parte dell’unione civile) o il convivente di fatto del soggetto con disabilità hanno compiuto 65 anni, o sono anch’essi affetti da patologie invalidanti a carattere permanente, o sono deceduti o mancanti per assenza naturale, giuridica o per situazioni di assenze continuative, giuridicamente assimilabili alle precedenti e certificate dall’autorità giudiziaria o dalla pubblica autorità.
Il caso
La controversia all’esame della Suprema Corte prende le mosse dalla sentenza della Corte di Appello di Brescia che conferma la legittimità, già dichiarata in primo grado, del licenziamento per giusta causa intimato il 16 marzo 2022 ad un dipendente reo di aver impropriamente utilizzato i permessi concessi ai sensi della Legge numero 104/1992 per assistere la madre.
Secondo la Corte di Appello il lavoratore ha usufruito di due ore di permesso retribuito dalle 13 alle 15, nel corso delle quali, come risulta dagli accertamenti svolti da un’agenzia di investigazione privata, nelle giornate del 20 gennaio, 1° febbraio, 3 febbraio, 17 febbraio, 2 marzo e 4 marzo dell’anno 2022, l’interessato “giunto a casa intorno alle ore 13.00, dopo circa un’ora, ossia intorno alle 14.00, usciva in bicicletta da corsa vestito con abbigliamento sportivo (scarpette, guanti, casco, occhiali) e rientrava a casa intorno alle 17:00” (sentenza).
Il giudice di seconde cure ha ritenuto che tale comportamento fosse “caratterizzato da una preordinata reiterazione e sistematicità della condotta, desunta dal numero e frequenza degli episodi”.
Tale condotta sistematica, prosegue la Corte di Appello denota, da un lato, che “l’uso improprio dei permessi era ormai divenuto abituale, dall’altro, mette in luce il particolare disvalore della condotta, posta in essere per soddisfare esigenze puramente di svago del lavoratore”.
La decisione della Cassazione
Investita della questione la Suprema Corte giudica infondato il ricorso del lavoratore contro la sentenza di secondo grado.
Con il primo motivo di ricorso il dipendente denunciava le modalità di controllo effettuate a mezzo di un’agenzia di investigazione privata.
Il secondo motivo, al contrario, sottolineava che il giudice di merito non si era attenuto ai principi enunciati dalla stessa Suprema Corte in materia di utilizzo dei permessi al lavoratore per l’assistenza al familiare disabile.
Legittimo il ricorso agli investigatori
Sul primo motivo di ricorso gli Ermellini precisano che il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera.
Per giurisprudenza consolidata della stessa Suprema Corte il controllo delle agenzie investigative può invece avere ad oggetto il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale.
In particolare, è costantemente ritenuto “legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa ma sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo dei permessi ex lege n. 104 del 1992” (sentenza).
L’utilizzo fraudolento dei permessi può portare al licenziamento
Nel ritenere infondato anche il secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione afferma che la sentenza di secondo grado appare conforme alla giurisprudenza consolidata in tema di condotte abusive di lavoratori che fruiscano di sospensioni autorizzate del rapporto per l’assistenza o la cura di soggetti protetti.
Per pacifica giurisprudenza di legittimità, affermano gli Ermellini, può costituire “giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore, di permessi ex lege n. 104 del 1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso”.
Violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti dell’azienda
Il beneficio dell’assenza in permesso retribuito, precisa la Suprema Corte, comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela.
Ove manchi, come nel caso di specie, il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e “dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto” o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo.
Nesso causale tra permesso ed assistenza
L’esistenza di un diretto e rigoroso nesso causale tra fruizione del permesso e assistenza alla persona disabile, chiarisce la sentenza in parola, non dev’essere interpretato in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio delle proprie esigenze personali o familiari “ma piuttosto quale chiara ed inequivocabile funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile”.
Spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi è in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave e pur nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.
Nella controversia in argomento, al contrario, i giudici hanno concordemente ritenuto le modalità abusive di una condotta sistematicamente “preordinata al soddisfacimento di personali esigenze ricreative” del dipendente.
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