Legittimo l’utilizzo dei dati contenuti nella lista Falciani

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I dati della lista Falciani sono utilizzabili nell’accertamento tributario in quanto l’amministrazione finanziaria nel contrasto all’evasione fiscale può avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, con la sola esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una disposizione di legge o siano stati acquisiti in violazione di un diritto del contribuente”.

E’ quanto ha affermato la Suprema Corte, con le ordinanze n. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, secondo cui il documento contenenti nomi di contribuenti presunti evasori (tra cui circa 7mila contribuenti italiani), sottratto alla banca svizzera Hsbc da un ex dipendente della stessa (l’informativo Hervè Falciani) è utilizzabile a favore del fisco.

In particolare, la controversia riguardava alcuni avvisi di accertamento ed atti di contestazione sanzioni notificati dall’Agenzia delle Entrate proprio sulla base dei dati contenuti nella lista. Tale elenco era stato sequestrato dalle autorità francesi e trasmesso alle autorità fiscali europee in ottemperanza alla direttiva 77/799/Cee, per giungere poi a maggio 2010 alla GdF ed alla Agenzia delle Entrate. Orbene, impugnati gli atti impositivi innanzi i giudici tributari, i contribuenti ottenevano pronunce favorevoli sia in primo grado che in appello. Infatti, le Commissioni tributarie ritenevano non utilizzabili i dati contenuti nella lista e conseguentemente annullavano gli atti impositivi del fisco laddove l’acquisizione documentale era illegittima in quanto le informazioni provenivano da reati perpetrati dall’ex dipendente (accesso abusivo a un sistema informatico, (art. 615-ter c.p.), appropriazione indebita di dati personali (articoli 846 e 61, n. 11, c.p.) ecc.). Si ricorda altresì che la Corte di Cassazione (n. 38753/2012), in un procedimento relativo alla “lista Falciani”, pur non pronunciandosi sulla sua utilizzabilità o meno, ha affermato che, qualora risulti l’acquisizione illecita dei documenti, allora questi non potranno essere utilizzati in sede dibattimentale. A tal proposito, la Corte d’Appello di Parigi (sentenza 8 febbraio 2011) ha sancito l’illegittimità delle modalità attraverso le quali le autorità francesi sono venute in possesso della “lista Falciani”, negandone l’utilizzabilità ai fini accertativi. La sentenza è stata confermata dalla Corte di Cassazione francese (sentenza n. 11-13097 del 2013).

Ebbene l’Agenzia ricorreva dunque in Cassazione.

I Giudici Supremi così stabilivano che, esaminando il tema dell’utilizzabilità dei dati acquisiti dall’ufficio fiscale dalle autorità fiscali francesi in forza della dir.CEE 77/779, la Corte di giustizia-Corte giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12,- ha riconosciuto che la direttiva 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, aggiungendo inoltre che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme. Si deve perciò concludere che il diritto dell’Unione non preclude ad un soggetto passivo la possibilità di mettere in discussione, nell’ambito di un procedimento tributario nazionale, la correttezza delle informazioni fornite da altri Stati membri ai sensi dell’art. 2 della direttiva 77/799. In altri termini, se non può sostenersi che le modalità di acquisizione mediante strumenti di cooperazione ai fini della lotta all’evasione possano ex se rendere legittima l’utilizzabilità della documentazione trasmessa, non può nemmeno affermarsi, come invece ha ritenuto la CTR, che detti strumenti imponessero all’autorità italiana un’attività di verifica circa provenienza e autenticità della documentazione trasmessa, anche considerando che secondo la Corte di Giustizia la dir.77/799 persegue l’ulteriore finalità di consentire il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio nei vari Stati membri-Corte giust. 13 aprile 2000, causa C- 420/98,W.N., p.22-.

E’ poi errata la ritenuta inutilizzabilità -da parte della CTR- dei documenti in ragione della provenienza illecita- trafugamento dei dati bancari da parte di un ex dipendente della banca svizzera HSBC, F.H. acquisiti successivamente dall’autorità francese. Occorre, anzitutto escludere qualunque diretta rilevanza ai fini del giudizio all’avviso espresso da Cass.pen.n.29433/2013 che, in ambito penale, ha escluso la legittimazione del contribuente a chiedere la distruzione dei documenti della Lista (OMISSIS), al cui interno si rinviene l’affermazione che detti documenti potrebbero costituire valido spunto di indagine ancorchè acquisiti illegalmente, al pari degli scritti anonimi- risolvendosi in un’affermazione che trova il suo ambito all’interno della disciplina processualpenalistica. In effetti, la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio – sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20) ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 2010;Cass.n.13121/2012).

Si riconosce quindi, generalmente, che “…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) – cfr.Cass.n.24923/2011-. Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta all’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Ora, occorre evidenziare che non può porsi in discussione la legittimità dell’attività posta in essere dall’Amministrazione fiscale interna su impulso di quella francese in forza della dir.79/799/CEE, correttamente utilizzata nel caso di specie, anche in relazione a quanto sopra esposto.

Ed infatti, tanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, che l’art. 41, comma 2, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 1, prendono esplicitamente in considerazione l’utilizzo di elementi “comunque” acquisiti, e perciò anche nell’esercizio di attività istruttorie attuate con modalità diverse da quelle indicate nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33 e nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51. Tali disposizioni individuano, quindi, un principio generale di non tipicità della prova che consente l’utilizzabilità – in linea di massima- di qualsiasi elemento che il giudice correttamente qualifichi come possibile punto di appoggio per dimostrare l’esistenza un fatto rilevante e non direttamente conosciuto. Ciò che trova, peraltro, un limite quando gli elementi probatori siano stati direttamente acquisiti dall’Amministrazione in spregio di un diritto fondamentale del contribuente.

Va dunque sottolineato, con riferimento al caso qui esaminato, che l’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista- questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia – e, comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi – v., sul punto, la già ricordata pronunzia della Cassazione penale francese del novembre 2013 – (Cour de Cassation criminelle, 27.11.2013, ric.13-85042) che ha espressamente riconosciuto l’utilizzazione -addirittura in ambito penale- della Lista (OMISSIS) sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubblica-.

Nè l’utilizzazione, nel procedimento amministrativo volto all’accertamento di violazioni di natura fiscale, dei documenti provenienti dalla lista (OMISSIS) determina una lesione di diritti costituzionalmente garantiti del contribuente.

L’attività anzidetta compiuta dell’amministrazione fiscale italiana su impulso di quella francese non si pone, considerando quanto già esposto in ordine alla base legale che giustifica l’attività della p.a., in rotta di collisione con il diritto fondamentale alla riservatezza.

Occorre rilevare che il legislatore, con la L. n. 413 del 1991 – art. 18- ha abrogato il “cd. segreto bancario” (cfr. Cass. n. 16874/2009) -secondo l’opinione prevalente traente origine da una norma consuetudinaria- e, per altro verso, la sfera di riservatezza relativa alle attività che gravitano attorno ai servizi bancari è essenzialmente correlata all’obiettivo della sicurezza e al buon andamento dei traffici commerciali.

Ciò consente di evidenziare che i valori collegati al diritto alla riservatezza e al dovere di riserbo sui dati bancari sono sicuramente recessivi di fronte a quelli riferibili al dovere inderogabile imposto ad ogni contribuente dall’art. 53 Cost.. D’altra parte, sempre secondo la Corte costituzionale, “…alla riservatezza cui le banche sono tenute nei confronti delle operazioni dei propri clienti non si può applicare il paradigma di garanzia proprio dei diritti di libertà personale, poichè alla base del segreto bancario non ci sono valori della persona umana da tutelare: ci sono, più semplicemente, istituzioni economiche e interessi patrimoniali, ai quali, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, quel paradigma non è applicabile (v. sentt. nn.55 del 1968 e 22 del 1971)”.

Del resto, l’esigenza primaria ben rappresentata dall’art. 53 Cost., che si sostanzia nei doveri inderogabili di solidarietà, primo fra tutti quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, alla quale si associa in modo altrettanto cogente l’obiettivo di realizzare una decisa “lotta” ai paradisi fiscali illecitamente costituiti all’estero, giustifica l’utilizzabilità delle prove acquisite dall’amministrazione con le modalità qui esaminate, trovando comunque copertura nel quadro normativo sopra menzionato e senza che possa dirsi esistente nell’ordinamento interno un principio opposto a quello appena esposto- in questa direzione v., ancora, Corte costituzionale tedesca, 9 novembre 2010 2 BvR 2101/09-.

Nè appare profilabile la lesione dell’art. 24 Cost. se si accede all’idea che il contenuto della lista costituisce semplice indizio nel processo tributario ed il giudicante di merito è tenuto a prenderlo in considerazione, pro o contro il fisco, nel quadro delle complessive acquisizioni processuali, con piena facoltà d’intervento delle difese – cfr.Cass.n.16874/2009-.

Nemmeno può ipotizzarsi una lesione del cd. giusto processo per come tutelato dall’art. 6 CEDU.

Quanto al carattere indiziario degli elementi originariamente raccolti dalle autorità francesi, la CTR ha omesso di considerare che anche un solo indizio può risultare già di per sè idonei a giustificare la pretesa fiscale, essendo ormai ferma la giurisprudenza di questa Corte nel ritenere che in materia tributaria, è sufficiente, quale prova presuntiva, un unico indizio, preciso e grave (ancorchè l’art. 2729 c.c. si esprima al plurale) e la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevolezza e probabilità – cfr.Cass. n. 656/2014; Cass.n. 12438/2007; Cass.n.28047/2009; Cass.n.27063/2006.

Nè può dubitarsi dell’utilizzabilità di informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative quali elementi di prova (Cass. 30 settembre 2011, n. 20032; Cass. 20 aprile 2007, n. 9402; Cass. 29 luglio 2005, n. 16032; Cass. 5 maggio 2011, n. 9876;Cass. 14 maggio 2010, n. 11785;Cass.n.2916/2013;v. anche Cass.n.3839/2009;Cass., 7 agosto 2008 n. 21271; Cass.n.4612, 4613 e 4614/2014).

Alla luce di tali principi processual-penalistici, i Giudici Supremi nella sentenza in commento, concludevano che sono perciò utilizzabili, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente infedele di un istituto bancario, senza che assuma rilievo l’eventuale reato commesso dal dipendente stesso e la violazione del diritto alla riservatezza dei dati bancari (che non gode di tutela nei confronti del fisco). Spetterà quindi al giudice di merito, in caso di contestazioni fiscali mosse al contribuente, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro con le difese del contribuente.

Ecco che si può evincere che la lista Falciani dapprima non pregiudicherebbe il diritto di difesa ai fini dell’acquisizione illegittima perché semplice indizio valutabile pro e contro il contribuente, poi invece dovendo esaminarne la rilevanza diventa un indizio più che idoneo a determinarne la rettifica con la conseguenza  che  come accade oramai spesso siano prevalse le ragioni del fisco sottese a queste vicende.

Ebbene, tutto ciò posto, è auspicabile che come più volte ribadito in un mio progetto di decreto legislativo di riforma del processo tributario, in discussione al Parlamento, redatto a seguito della Legge n. 23 dell’11 marzo 2014 all’art. 10, che finalmente dopo anni di attesa ha delegato il Governo ad introdurre con i decreti legislativi norme per la revisione del processo tributario, l’inutilizzabilità delle prove acquisite illegittimamente non valga solo per il processo penale ma anche per il processo tributario.

 

Ha collaborato Iolanda Pansardi

 

Maurizio Villani

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