La fecondazione assistita tra bilanciamento di valori e consenso europeo

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Agatino Lanzafame

1. Diritto a procreare, libertà di procreazione e diritti procreativi. 

Con nota del 9 aprile 2014, la Corte costituzionale ha comunicato che è stata dichiarata l’illegittimità della legge n. 40/2005, nella parte in cui vieta la fecondazione eterologa.
In attesa di conoscere le motivazioni poste alla base della decisone della Corte Costituzionale, con il presente contributo si tenterà di sgombrare il campo dai toni trionfalistici, da un lato, e catastrofici, dall’altro, con cui è stata accolta la notizia della sentenza della Consulta.
L’ulteriore intervento del giudice delle leggi ha posto sul tappeto, ancora una volta, la questione dei limiti entro cui è concesso al legislatore ingerirsi in scelte, come quelle procreative, che la giurisprudenza europea ha ritenuto pacificamente ascrivibili alla vita privata e familiare delle persone ex art. 8 della CEDU 1.
La riflessione intorno ai cd. diritti procreativi, non può prescindere dalla valutazione circa l’esistenza nel nostro ordinamento, alla luce del diritto positivo e della giurisprudenza costituzionale e “convenzionale”, di un vero e proprio “diritto a procreare”, nonché dei limiti che ad esso sono posti.
Preliminarmente è possibile rilevare che intorno alla natura, e conseguentemente ai limiti 2, del diritto a procreare non si registra unanimità di vedute.
Se infatti è condiviso da buona parte degli Autori e della giurisprudenza il riconoscimento di una libertà di procreazione, che assume i caratteri di “non interferenza nelle decisioni personali e nella loro realizzazione” 3, non altrettanto condivisa è l’esistenza di un diritto a procreare, che si configura come diritto di ciascuno ad avere una propria discendenza geneticamente collegata. A tale diritto sarebbe correlato un corrispettivo dovere di realizzazione effettiva da parte dei privati e delle istituzioni pubbliche 4.
In senso contrario, è possibile citare la decisione n. 6564/1974 della Commissione Europea con la quale si afferma che “sebbene il diritto di fondare una famiglia sia un diritto assoluto nel senso che non sono espressamente previste restrizioni ciò non significa che un individuo debba avere in ogni momento la possibilità di procreare i propri discendenti” 5, in tal modo riconoscendo, da un lato, l’inesistenza di esplicite restrizioni e, dall’altro, la naturale esistenza di limiti impliciti.
In tale direzione, sembra del resto collocarsi la giurisprudenza EDU in tema di adozioni, materia contigua a quella del diritto alla procreazione, in quanto afferente all’ambito della genitorialità. È da registrarsi infatti che i giudici di Strasburgo hanno sempre negato l’esistenza di un diritto ad adottare, affermando che un tale diritto non è previsto dalla Convezione né si può trarre dall’art. 8 o dall’art. 12 della CEDU 6.
L’orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sembra piuttosto da ricondurre al riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla procreazione come “desir” 7, la cui realizzazione, pur dovendo essere resa effettiva dagli stati, deve tener conto del necessario bilanciamento con altri valori.
Un orientamento, del resto, efficacemente espresso nella concurring opinion del giudice De Gaetano, nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al caso S.H. e altri c. Austria, nella quale si afferma che “mentre non v’è alcun dubbio che la decisione di una coppia di concepire un bambino è una decisione che appartiene alla vita privata e famigliare di tale coppia (e, nel contesto dell’articolo 12, al diritto della coppia di formare una famiglia), né l’articolo 8 né l’articolo 12 possono essere interpretati come conferenti il diritto a concepire un bambino a qualunque costo.”
Ai fini di una valutazione circa l’esistenza, all’interno del nostro ordinamento, di un diritto alla procreazione, non è possibile ricavare elementi certi dal diritto positivo italiano.
Il richiamo più significativo al diritto alla procreazione è contenuto nell’art. 1, comma 1, l. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, secondo cui lo Stato, che riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio, deve garantire il “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” 8.
Il richiamo alla responsabilità contenuto nella legge 194 non può essere inteso esclusivamente nel senso di una responsabilità verso se stessi. Piuttosto, è preferibile riscontrarne una valenza “relazionale”. La scelta procreativa costituisce, infatti, una delle espressioni più autentiche “di un itinerario che non è di solitudine” 9 e che inevitabilmente comporta il confronto con una alterità. Ciò impedisce la configurazione del diritto a procreare come un diritto assoluto la cui realizzazione deve essere garantita ad ogni costo.
D’altronde, anche la giurisprudenza della Corte costituzionale sembra optare per un riconoscimento di un diritto alla procreazione inteso, non tanto come diritto assoluto, quanto piuttosto come libertà per l’individuo di determinarsi in ordine alle scelte procreative, senza che dalla scelta di avere un figlio possano per lo stesso derivare conseguenze negative da parte dell’ordinamento10.
Posta l’impossibilità di configurare all’interno del nostro ordinamento, alla luce delle disposizioni Convenzionali e Costituzionali vigenti, l’esistenza di un diritto assoluto alla procreazione, appare chiaro che nel regolamentare la delicata materia dell’inizio vita, il legislatore prima, e gli interpreti poi, siano chiamati ad operare un equilibrato bilanciamento tra i diversi valori in gioco.
Tale necessità di bilanciamento costituisce il fil-rouge del dibattito intorno ai diritti procreativi, all’interno del quale possono essere riconducibili una pluralità di questioni nelle quali si intrecciano aspetti non soltanto giuridici ma anche (e soprattutto) bioetici, inerenti il “se”, ma soprattutto il “come” della procreazione.
Questioni tutte ascrivibili alla possibilità offerta all’uomo dalla scienza di “produrre esso stesso l’uomo” quali ad esempio la disciplina del ricorso alla fecondazione medicalmente assistita e alla fecondazione artificiale, la manipolazione (eu)genetica degli embrioni e il diritto di chi nasce, a ricevere un patrimonio genetico non manipolato. A ciò può aggiungersi, come espressione definitiva della disponibilità della vita da parte dell’uomo, la clonazione.

2. Diritto a procreare e fecondazione medicalmente assistita: la giurisprudenza della CEDU

Non potendo in questa sede affrontare, nella sua vastità e complessità, l’intero ambito dei cd. diritti procreativi e delle questioni connesse, si ritiene opportuno concentrare l’attenzione sul tema della Fecondazione Medicalmente Assistita e sulle problematiche giuridiche ad essa connesse.
A tal fine si cercherà di ripercorrere la giurisprudenza europea in materia di fecondazione assistita, evidenziando il ruolo dei giudici di Strasburgo nell’evoluzione del dibattito giuridico intorno alla FMA. Ci si soffermerà sul quadro normativo e giurisprudenziale italiano ed infine si individueranno i nodi problematici principali afferenti le questioni aperte e maggiormente controverse in materia, tutte riconducibili “ai limiti che si ritiene opportuno fissare con legge alla autonomia delle persone di realizzare il proprio progetto di procreazione con l’aiuto del medico”.
Tra i principali protagonisti dell’evoluzione del dibattito giuridico intorno alla Fecondazione Medicalmente Assistita non può non annoverarsi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In particolar modo il contributo della Corte EDU è stato rilevante in tre direzioni: la definizione del momento in cui l’embrione acquisisce dignità di persona, la valutazione circa la legittimità di restrizioni imposte dai legislatori in materia di fecondazione eterologa, e la valutazione della legittimità delle restrizioni imposte dai medesimi in materia di diagnosi pre-impianto finalizzata alla prevenzione delle malattie genetiche.

2.1. Corte Edu e dignità dell’embrione
Le questioni maggiormente controverse in materia di fecondazione medicalmente assistita e, più in generale, la materia dell’inizio vita, sono riconducibili alla già richiamata presenza all’interno delle scelte procreative di un soggetto terzo rispetto agli aspiranti genitori, della cui tutela è chiamato a farsi carico l’ordinamento.
Se l’esistenza di un’alterità è connaturata al concetto stesso di procreazione 11 ed è pacificamente riconosciuta, il puctum dolens è rappresentato dalla controversa questione relativa al momento in cui tale alterità si manifesta come soggettività giuridica, se non addirittura come persona.
Rimandando alle pagine successive ogni considerazione sulla necessità di un approccio volto a garantire, nell’incertezza scientifica, la più ampia garanzia nei confronti del soggetto debole identificabile con la vita nascente, è da rilevare come la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo abbia più volte avuto occasione di pronunciarsi in ordine alla questione relativa alla possibilità di configurare l’embrione come “persona” e alla connaturata esigenza di tutelarne la dignità: in tal senso è possibile segnalare le sentenze sul caso Vo c. Francia (8 luglio 2004) e Evans c. Regno Unito (10 aprile 2007).
Nel primo caso, la Corte, adita da una cittadina francese vittima di un’interruzione della gravidanza colposamente praticata in un ospedale di Lione, respingeva le censure della ricorrente affermando che non era dato riscontrare né nell’opinione pubblica francese, ne all’interno degli stati europei, un’idea diffusamente condivisa circa la reale natura dell’embrione.
Tale assenza di un unanime e generalizzato consenso sulla definizione scientifica e giuridica dell’inizio della vita umana viene posta dai giudici di Strasburgo alla base della sentenza Evans c. Regno Unito. Anche in questo caso i giudici, chiamati a valutare la violazione degli art. 2, 8 e 14 CEDU da parte dello Human fertilisation e embryology act del 1990 nella parte in cui non vietava all’ex partner di revocare il consenso all’utilizzazione degli embrioni, rilevavano che “in attesa della formazione di un consenso europeo intorno al momento esatto in cui dovesse ritenersi iniziata la vita umana ciascuno stato membro poteva legittimamente scegliere di non attribuire all’embrione umano la qualifica di autonomo soggetto di diritto”.
Un atteggiamento quello dei giudici di Strasburgo che potrebbe definirsi pilatesco, laddove fa leva sul richiamo al “consenso comune” tra gli stati europei in numerose pronunce in materia di inizio vita. Richiamo che presta, come vedremo, il fianco a numerose critiche.

2.2. Legittimità delle restrizioni alla fecondazione eterologa. La Sentenza S. H. c. Austria
Con la sentenza S.H. c. Austria, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pone un nuovo importante tassello all’interno del dibattito relativo alla legittimità convenzionale di interventi legislativi volti a limitare la libertà per i cittadini di ricorrere a tecniche di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo.
All’origine della causa vi è un ricorso (n. 57813/00) proposto contro la Repubblica d’Austria con il quale quattro cittadini austriaci lamentavano la violazione dei diritti ad essi riconosciuti dall’art 8 CEDU 12, in combinato disposto con l’art. 14 della CEDU da parte della legge austriaca sulla procreazione assistita 13 che vieta la donazione di ovuli e di sperma per la fecondazione in vitro (unica tecnica medica con la quale i ricorrenti avrebbero potuto concepire un bambino).
Con tale pronuncia la Grande Camera capovolge14 il verdetto pronunciato a maggioranza da una camera della Prima sezione della Corte 15 rilevando che “non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione per quanto riguarda tutti i ricorrenti” in quanto il legislatore austriaco “non ha ecceduto il margine di discrezionalità concessogli né per quanto riguarda il divieto di donazione di ovuli ai fini della procreazione artificiale né per quanto riguarda il divieto di donazione di sperma per la fecondazione in vitro previsto dall’articolo 3 della Legge sulla Procreazione Artificiale”.
Dopo avere operato una ricostruzione del quadro normativo austriaco ed europeo in materia di procreazione medicalmente assistita, ed in particolar modo in materia di fecondazione eterologa, la a Grande Camera, confermando gli orientamenti espressi dalla Prima Sezione, si pronuncia in ordine all’applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione alla vicenda in esame, in linea di continuità con i propri precedenti orientamenti giurisprudenziali a partire dalla sentenza Evans c. Regno Unito del 10 aprile 2007 16.
In particolare la Corte rileva che “il diritto di una coppia di concepire un bambino e di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per tale scopo rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 8, in quanto tale scelta è chiaramente un’espressione della vita privata e famigliare”.
Verificata l’applicabilità dell’art. 8 della CEDU, al fine di valutare la conformità della legislazione impugnata, la Corte affronta la questione relativa alla possibilità di configurare una ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e famigliare (obblighi negativi dello Stato) o piuttosto una inadempienza da parte dello Stato di osservare un obbligo positivo in tal senso.
In relazione a tale questione la Corte decide di qualificare l’intervento del legislatore austriaco quale “ingerenza nel diritto dei ricorrenti di avvalersi delle tecniche di procreazione artificiale secondo gli articoli 3 (1) e (2) della legge sulla procreazione artificiale poiché ciò è stato loro di fatto impedito dalla normativa che essi hanno cercato invano di impugnare davanti ai tribunali austriaci”.
Una ingerenza che però viene valutata dai giudici di Strasburgo come legittima ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 della Convenzione in quanto risulta “conforme alla legge”, “persegue uno o più scopi legittimi tra quelli elencati”, ed è “necessaria in una società democratica” al fine di raggiungere l’obiettivo o gli obiettivi interessati.
In relazione ai primi due profili, sui quali si registrava peraltro una pacifica convergenza tra le parti, la Corte “ritiene che il provvedimento in questione fosse previsto dalla legge, segnatamente dall’articolo 3 della Legge sulla Procreazione Artificiale, e che perseguisse uno scopo legittimo, segnatamente la protezione della salute o della morale e la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Per quanto riguarda il terzo requisito la Corte sottolinea che “dove non esiste alcun consenso tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, sia per ciò che riguarda l’importanza relativa degli interessi in gioco o il mezzo migliore per salvaguardarli, in particolare laddove la causa sollevi questioni di sensibilità morale o etica” gli stati membri, in virtù del loro diretto e continuo contatto con le forze vitali dei loro Paesi, godono di un ampio margine di discrezionalità 17 al fine di stabilire un armonioso equilibrio tra opposti interessi privati e pubblici o tra diritti tutelati dalla Convenzione.
L’utilizzo della fecondazione in vitro ha sollevato e continua a sollevare questioni delicate di ordine etico e morale, collocate in un contesto medico e scientifico in continua evoluzione. Inoltre, le questioni poste dalla vicenda in esame vertono su aree in cui non vi è ancora una omogeneità di vedute tra gli Stati membri. La Corte, dunque, considera assai ampio il margine di discrezionalità degli Stati. Per tali ragioni, i giudici EDU non hanno riscontrato alcuna violazione ad opera del legislatore austriaco.
Nell’affermare ciò la Corte sottolinea però che pur non evincendo alcuna violazione dell’articolo 8, “essa ritiene che questa materia, in cui il diritto sembra essere in costante evoluzione e che è particolarmente soggetta ad un rapido sviluppo per ciò che attiene alla scienza e al diritto, richiede un esame permanente da parte degli Stati Contraenti”. In tal modo, si sottolinea la volontà di adottare un approccio dinamico nel valutare la ragionevolezza delle ingerenze degli stati, alla luce delle evoluzioni scientifiche.
Degno di nota, ancorché criticabile, il fatto che, al fine di sottolineare l’approccio attento e cauto del legislatore austriaco nel tentare di conciliare le realtà sociali con la sua posizione, la Corte rileva altresì che “la legislazione austriaca non vieta in alcun modo di rivolgersi all’estero per richiedere il trattamento contro la sterilità che utilizza tecniche di procreazione artificiale non permesse in Austria”.
Un argomento, quello della possibilità di recarsi all’estero, che sembra legittimare il fenomeno del cd. turismo procreativo e solleva non poche perplessità in quanto, così come rilevato dai giudici dissenzienti, tanto le preoccupazioni relative al miglior interesse del bambino, quanto quelle riguardanti la salute della madre, invocate dal governo e considerate ragionevoli (se non fondate) dalla Corte, “sembrano scomparire al momento in cui viene oltrepassato il confine nazionale”.
Due gli elementi da sottolineare nel percorso argomentativo utilizzato dalla Corte EDU: da un lato, la scelta della Corte di astenersi dal valutare nel merito non tanto l’opportunità del bilanciamento compiuto dai singoli stati, quanto piuttosto il concreto assetto da questo garantito e la sua compatibilità con i principi di proporzionalità e adeguatezza, che devono caratterizzare l’ingerenza statale; dall’altro l’approccio dinamico che la Corte indica come necessario al fine di valutare la ragionevolezza dell’ingerenza degli stati, che deve essere valutata alla luce dello “stato dell’arte” medico-scientifico che caratterizza il contesto da regolare 18.
Entrambe le considerazioni – riconducibili alla continua necessità richiamata anche in questa sede dalla Corte di verificare l’esistenza di un “consenso europeo” (politico e scientifico) al fine di misurare il proprio margine di intervento sulla discrezionalità degli Stati – danno l’immagine di una Corte EDU quantomeno prudente, se non rinunciataria, nel tracciare il percorso per una legislazione “convenzionalmente orientata” in materia di inizio vita.

2.3. Il divieto di diagnosi pre-impianto
In questo quadro, occorre collocare anche la recente sentenza pronunciata dai giudici di Strasburgo nel caso Costa e Pavan c. Italia, con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha censurato le disposizioni della legge 40/2004 in materia di diagnosi pre-impianto.
All’origine di tale pronuncia vi è un ricorso (n. 54270/10) proposto contro la Repubblica italiana da due cittadini, portatori sani della mucoviscidosi, che lamentavano una violazione degli art. 8 e 14 della CEDU, in quanto la legislazione italiana in materia di fecondazione medicalmente assistita non consente di poter accedere alla diagnosi genetica pre-impianto, al fine di selezionare un embrione che non sia affetto dalla specifica patologia dei ricorrenti.
Anche in questo caso, i giudici di Strasburgo, al fine di valutare la fondatezza delle doglianze, valutano preliminarmente se il desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica, di cui sono portatori sani, e di ricorrere, per tali ragioni, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi pre-impianto rientri nel campo della tutela offerta dall’articolo 8. L’esito positivo di tale valutazione viene motivato dalla Corte sulla base della considerazione che “una tale scelta costituisce una forma di espressione della vita privata e familiare dei ricorrenti”.
Constatata l’esistenza di una ingerenza dello Stato nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e famigliare, anche in questo caso la Corte procede ad effettuare una valutazione della legittimità dell’ingerenza in ordine alla sua necessità in una società democratica 19.
Nel merito la Corte accoglie le valutazioni dei ricorrenti circa la sproporzione del divieto di diagnosi pre-impianto posto a loro carico, a fronte del fatto che il sistema legislativo italiano autorizza i medesimi a procedere ad un’interruzione medica di gravidanza qualora il feto dovesse essere colpito dalla patologia di cui sono portatori 20, rilevando l’incoerenza in materia della legislazione italiana.
Il diverso atteggiamento dei giudici di Strasburgo, al di là delle già richiamate valutazioni relative all’irragionevolezza di un sistema che permette l’aborto in caso di malformazioni del nascituro e contemporaneamente vieta l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, trova un’ argomentazione decisiva, sull’esistenza, riscontrata dalla Corte EDU, di un consenso europeo (29 stati su 32) attorno alla finalizzazione della fecondazione medicalmente assistita alla prevenzione delle malattie genetiche, che restringe il margine di apprezzamento nazionale nella messa in opera dei diritti convenzionali 21.
È da considerarsi preoccupante non tanto la possibilità di ascrivere tale sentenza ad un filone di “rinnovata aggressività caratteristica della nuova stagione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo, che sembra curarsi oggi molto meno di un tempo delle peculiarità proprie delle identità nazionali, anche costituzionali, degli Stati membri” 22, quanto piuttosto il fatto che nel determinare il proprio orientamento la Corte abbia fatto ancora una volta riferimento al criterio del “consenso europeo”.
I giudici di Strasburgo non hanno operato in prima persona un prudente apprezzamento dei valori in gioco, omettendo peraltro di pronunciarsi in maniera esplicita sulla vera questione oggetto della pronuncia: la possibilità, contestata dal governo italiano, di configurare all’interno dell’ordinamento CEDU il “diritto ad avere un figlio sano” 23.

3. La PMA in Italia. La legge 40/2004 e le pronunce della Corte Costituzionale.
La procreazione medicalmente assistita è attualmente disciplinata in Italia dalla legge n. 40 del 19 febbraio 2004. Una legge che pur avendo avuto l’indubbio merito di porre fine alla situazione italiana di vuoto normativo in materia, ha suscitato non poche critiche sia sul piano politico che sul piano della legittimità costituzionale, tanto da spingere alcuni Autori a parlare di una “legge sotto assedio” le cui disposizioni, archiviato l’esito negativo del referendum del 2005, sono state oggetto di numerose censure da parte della Corte EDU e da parte dei giudici italiani 24.
I capisaldi della legge 40 nel suo testo originario, che appare chiaro abbia come obiettivo quello di “fugare apertamente, nelle forme e nei contenuti, soluzioni di natura compromissoria nel tentativo di approntare una regolamentazione della materia riconducibile ad una univocità prospettica sul piano dei valori” 25, sono tutti riconducibili ad una istanza di tutela del concepito26 e possono essere rintracciati in una serie di limitazioni e di divieti nell’accesso alla procreazione medicalmente assistita.
Tra le limitazioni ancora vigenti, si sottolinea il divieto di soppressione degli embrioni previsto dall’art. 14 comma 1, il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per single e coppie dello stesso sesso (art. 5), il divieto di surrogazione di maternità previsto (art. 12 comma 6), il divieto di accesso alla fecondazione in vitro nel caso uno dei componenti della coppia sia deceduto previsto (art. 5).
Tra le restrizioni contenute nella legge 40/2004 e successivamente travolte dalle pronunce della Corte Costituzionale 27 è possibile ricordare il divieto di produzione di più di tre embrioni previsto dall’originario articolo 14, comma 2 e l’obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti previsto dal medesimo articolo entrambi dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 151/2009 28 e infine, il divieto di fecondazione eterologa e cioè di donazione dei gameti29 previsto dall’art. 4, comma 3, dichiarato illegittimo in data 9 aprile 2014 dalla Consulta a seguito delle ordinanze dei tribunali di Catania30, Milano 31 e Firenze 32.
In attesa di leggere le motivazioni della pronuncia, in questa sede appare opportuno sottolineare come l’orientamento della Corte Costituzionale, nonché di gran parte della dottrina33 che non ha risparmiato feroci critiche all’intero impianto della legge 40, sembra protendere per una progressiva espansione dei confini del “diritto a procreare” e ha come conseguenza un contestuale (inaccettabile) ridimensionamento dei livelli di tutela riservati all’embrione, quale soggetto debole.
Salutato da molti come una conquista di civiltà34, tale orientamento della giurisprudenza costituzionale potrebbe piuttosto rappresentare un ulteriore passo lungo il pendio scivoloso 35 rappresentato dalla volontà dell’uomo di “produrre l’uomo”, che riduce il figlio a mezzo di autogratificazione in violazione di un dei principi fondamentali dell’etica laica 36.
Una dimensione, quest’ultima, che appare in tutta la sua evidenza nell’ottica eugenetica, nella quale “all’origine del rapporto io-tu, vi si trova un giudizio volto a stabilire se l’altro abbia caratteristiche che si ritengano adeguate all’instaurarsi di quel rapporto con lui” 37. Il nascituro, da persona diventa prodotto “ben riuscito”, se rispondente alle intenzioni del manipolatore o di colui che ne ha commissionato la manipolazione; o “mal riuscito” se discordante da esse 38.

4. Autodeterminazione e alterità alla luce del principio di precauzione
Alla luce del rapido excursus sulla giurisprudenza costituzionale italiana e europea in materia di procreazione medicalmente assistita, è possibile condurre alcune sintetiche riflessioni.
Gli hard cases sottoposti al vaglio dei giudici sottendono la tensione tra il legittimo desiderio – riconosciuto il più delle volte come “diritto” – di procreare da parte dei futuri genitori e la necessità di tutelare l’embrione. In altri termini, si tratta del conflitto tra autodeterminazione e alterità di cui si è già fatto cenno.
In tale “oscillazione”, non sembra potersi affermare la rarefazione del soggetto “altro” (l’embrione) a tutto vantaggio dell’altro estremo del pendolo.
Taluni negano l’esistenza di un’alterità, in quanto questa sarebbe il frutto della “scissione fittizia tra l’embrione e il corpo della donna” 39. L’embrione, infatti, non risulta un individuo autonomo ma dipende dalla madre.
Tali argomentazioni non appaiono convincenti. Negare la dignità umana di un soggetto esclusivamente sulla base di valutazioni legate alla sua, seppur vitale ed ineliminabile, interconnessione con un soggetto terzo creerebbe un paradosso. Infatti, si assumerebbe che la dignità dell’esistenza umana andrebbe posta in dubbio ogni qual volta un soggetto si trovi in condizioni di totale dipendenza dalle cure di un altro soggetto.
Una prospettiva aberrante che appare in contrasto con i fondamentali valori di uguaglianza e dignità della persona sanciti dalla Costituzione e dalla CEDU.
Allo stesso modo si ritiene che la considerazione secondo cui “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona (…) e la salvaguardia [di chi] persona deve ancora diventare» 40 non può essere intesa come il dovere assoluto per il legislatore di astenersi da ogni ingerenza in materia di gravidanza, quanto piuttosto, a contrario, come richiamo alla necessità di effettuare un bilanciamento tra diritti della madre e del concepito, questi ultimi comprimibili soltanto al fine di salvaguardare diritti fondamentali quali il diritto alla vita e alla salute della madre.
La presenza di tale alterità comporta l’impossibilità di assolutizzare il diritto alla procreazione e la necessità di contemperare tale diritto con l’esigenza di tutela della dignità umana 41.
D’altronde riconoscere l’esistenza di un diritto alla procreazione in capo alla coppia non significa necessariamente predicarne l’assolutezza. In tal senso, anche chi in dottrina sottolinea la necessità di un ampio riconoscimento di tale diritto, sottolinea come esso debba – come ogni altro diritto, ma forse nessun altro come esso – “confrontarsi con altri diritti ed altri interessi vivendo in una dimensione relazionale di reciproco riconoscimento” 42.
In altre parole, mutuando l’incisiva espressione utilizzata dal giudice De Gaetano nella concurring opinion sul caso S.H. c. Austria, è da ritenersi che “il “desiderio” di un bambino non possa divenire un obiettivo assoluto che prevalga sulla dignità della vita umana”.
In quest’ottica la scelta di apporre dei limiti all’autodeterminazione dei singoli in materia di diritti procreativi non nasce allora dalla volontà da parte dello Stato di imporre una determinata visione etica a tutti i cittadini quanto piuttosto dalla presa d’atto che, in materia di diritti procreativi, la persona non si trova “sola” nell’esercizio del diritto, ma è chiamata a misurarsi con una alterità che la richiama alla responsabilità.
Non si ritiene possibile pertanto aderire alla tesi sostenuta da autorevole dottrina in ordine alla possibilità che una materia così delicata, nella quale si intersecano tra loro una pluralità di soggettività, possa essere rimessa all’arbitrio delle scelte individuali 43 di una soltanto delle “parti” coinvolte (i genitori) e di conseguenza sottratta al ragionevole e prudente bilanciamento di valori effettuato dal legislatore, sulla ragionevolezza del quale sono chiamati a vegliare i giudici costituzionali quali custodi delle libertà.
È di fondamentale importanza, per l’evoluzione del dibattito giuridico in materia, soffermarsi su due importanti interrogativi aperti. Il primo riguarda la necessità di individuare il momento a partire dal quale sia possibile definire la presenza di una vita umana quale soggetto giuridico terzo meritevole di tutela. Il secondo interrogativo riguarda, invece, l’individuazione, nel quadro dell’integrazione europea e della conseguente armonizzazione dei diritti ad opera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dei soggetti deputati ad effettuare tale delicato bilanciamento dei valori in gioco.
In relazione alla prima questione appare del tutto evidente che il problema della tutela dell’alterità della vita nascente non può essere affrontato in maniera adeguata senza preliminarmente rispondere all’interrogativo relativo al momento in cui il concepito possa essere considerato soggetto giuridico, se non “persona”, dotata di capacità giuridica e di conseguenza titolare di diritti 44.
Su tale questione si registra una “palese incapacità della scienza medica di fornire certezze oggettive” 45, anche semplicemente in ordine alla definizione del momento in cui si possa compiutamente parlare di formazione dell’embrione 46, destinatario, ad oggi, di ridotte tutele 47.
A causa di tale incapacità della scienza è rimandato alla discrezionalità del legislatore il dovere di individuare convenzionalmente un momento a partire dal quale si possa individuare l’esistenza di una alterità da tutelare.
In tal senso è da apprezzare la scelta compiuta dal legislatore attraverso la legge 40 di fare propria una nozione di “embrione” talmente ampia, da potersi riferire all’ovocita attivato.
Un apprezzamento derivante non tanto quale frutto di adesione a determinate concezioni etiche o religiose 48, quanto piuttosto espressione di un generale principio di precauzione, che informa il nostro ordinamento e che ci impone, in presenza di questioni scientificamente controverse di adottare le misure maggiormente rispettose della vita e della dignità umana 49.
In tal senso si concorda con chi in dottrina ha affermato che il principio di precauzione indicando la scelta che l’ordinamento giuridico deve fare di fronte al dubbio “esprime con un linguaggio moderno un principio antico, in dubio pro vita, che deve essere massimamente applicato quando è in gioco la vita umana: nel dubbio sulla vita bisogna scegliere la vita, cioè bisogna comportarsi come se la vita ci fosse fino a che non è rimosso l’ultimo dubbio” 50.
Non appare condivisibile l’assunto di autorevole dottrina che ritiene la precauzione non valevole “per chi ritiene che l’embrione non è certamente persona” 51, proprio in virtù del fatto che lo scopo che si prefigge il principio in oggetto è quello di garantire – in presenza di opinioni scientifiche discordanti (debitamente motivate, e non meri atti di, pur autorevole, arbitrio intellettuale) – il livello di tutela maggiormente elevato.

5. Sacrificare il bilanciamento dei valori sull’altare del consenso europeo? Osservazioni conclusive
In conclusione si ritiene opportuno soffermarsi brevemente sulla questione relativa alla individuazione, nel quadro dell’integrazione europea e della conseguente armonizzazione dei diritti ad opera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dei soggetti deputati ad effettuare tale delicato bilanciamento dei valori in gioco in materia di inizio vita.
Si tratta, in sintesi, di verificare se tale compito è rimesso al prudente apprezzamento dei legislatori nazionali, ai quali deve essere quindi riservato un ampio margine di apprezzamento circa la ragionevolezza della loro ingerenza nella vita privata e familiare dei soggetti ai sensi dell’art. 8 CEDU o spetti piuttosto ai giudici di Strasburgo effettuare, nell’ottica di progressiva armonizzazione della tutela dei diritti nel territorio europeo, un bilanciamento valido erga omnes che riduca gli spazi di discrezionalità dei singoli stati.
Dall’analisi dell’ondivaga giurisprudenza della CEDU in materia, emerge però una ulteriore questione che si pone a monte della duplice alternativa appena prospettata. Ci si riferisce alla valutazione sull’esistenza di un “consenso europeo” intorno alle questioni sottoposte all’attenzione dei giudici di Strasburgo, quale criterio per fondare la scelta in ordine all’ampiezza del margine di discrezionalità concessa ai singoli Stati.
L’utilizzo di tale nozione sfuggente 52 ai fini della determinazione del margine di apprezzamento concesso agli stati in materia di diritti procreativi, accompagnata dalla già richiamata tendenza della Corte ad utilizzare il criterio di maggioranza per individuare l’esistenza di tale consenso, rischia di far si che il bilanciamento dei valori in tale materia (e di conseguenza il livello di tutela del concepito) sia affidato agli orientamenti politici contingenti degli stati europei.
Una prospettiva, quella delineata dalla Corte, che potrebbe avere esiti aberranti.
Invero, una rigida applicazione del principio del “consenso europeo” potrebbe produrre, come conseguenza, la limitazione di un diritto che, pur affermato nella società europea, è positivamente riconosciuto soltanto in alcuni Stati. Una possibilità, che pur remota deve essere considerata poiché, come sottolineato dal giudice De Gaetano nella già citata concurring opinion, “la storia ci insegna che il “consenso europeo” ha in passato portato ad atti di flagrante ingiustizia sia in Europa che altrove”.
Il formarsi di un cd. consenso europeo su questioni che richiedono un delicato bilanciamento di valori, non può e non deve tradursi in una abdicazione da parte della Corte alla funzione di valutare volta per volta se “un particolare atto od omissione o limitazione, compiuto dal legislatore nazionale, faccia progredire o retrocedere la dignità umana” 53.
Affidare il bilanciamento dei valori in materia di scelte procreative alla volontà di una maggioranza di stati attraverso il reiterarsi della clausola del consenso europeo significa rimettere, in maniera inaccettabile, la decisione circa l’estensione di un diritto fondamentale ad una maggioranza nella quale una delle soggettività coinvolte (il concepito) non può trovare in alcun modo rappresentanza 54.
Tali considerazioni spingono a sostenere la necessità che il giudice convenzionale si appropri a pieno titolo delle proprie prerogative di custode delle libertà e dei diritti, senza la necessità di fondare la legittimazione delle proprie pronunce sul volubile canone del consenso europeo55.
Diversamente la Corte sembra destinata ad abdicare “al proprio ruolo di promotore dell’armonizzazione ed estensione nella tutela dei diritti, limitandosi ad adeguare le garanzie della Convenzione a quanto deciso a livello statale” 56.
Se non si vuole sacrificare sull’altare del consenso europeo il delicato e necessario bilanciamento dei valori in gioco, al fine di una ricomposizione della tensione tra autodeterminazione dell’individuo e tutela della vita nella sua manifestazione più debole, i giudici di Strasburgo dovrebbero percorrere – anche in alternativa- due strade.
La prima è quella della prossimità, consistente nel demandare, con ampi margini di discrezionalità, agli Stati nazionali l’individuazione di un compromesso accettabile tra i valori in gioco, purché tale compromesso non si sostanzi in regolamentazioni abnormi o manifestamente irragionevoli.
La seconda è quella di rinunciare ad una giurisprudenza pilatesca 57. La Corte Edu dovrebbe assumersi, infatti, l’onere e la responsabilità, nell’ottica di una progressiva evoluzione del proprio ruolo, di effettuare essa stessa i bilanciamenti necessari. La bussola in questo caso dovrebbe essere costituita dai principi e dai valori intessuti nelle tradizioni costituzionali degli stati membri e non, invece, dagli orientamenti politici contingenti che sono alla base delle valutazioni circa un preteso consenso europeo.

 

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Agatino Lanzafame

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