Software all’italiana ovvero standard de facto e standard de jure

Giuseppe Vella 10/04/14
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Information Technology Infrastructure Library (ITIL) è un insieme di linee guida ispirate dalla pratica (Best Practice) nella gestione dei servizi IT (IT Service Management) e consiste in una serie di pubblicazioni che forniscono indicazioni sull’erogazione di servizi IT di qualità e sui processi e mezzi necessari a supportarli. (tratto da wikipedia)

Le raccomandazioni di ITIL sono state sviluppate negli anni ottanta dalla Central Computer and Telecommunications Agency (CCTA) del Governo Britannico in risposta alla crescente dipendenza dall’information technology; riconoscendo che, senza pratiche standard, i contratti fra gli enti governativi e le organizzazioni del settore privato venivano generati indipendentemente dalle proprie pratiche di gestione IT e duplicavano gli sforzi all’interno dei loro progetti ICT (Information and Communications Technology) con conseguenti errori ed incremento dei costi. (tratto da wikipedia)

Negli anni ottanta, oltre trenta anni fa, il Governo Britannico si rendeva conto che la PA britannica stava diventando dipendente dalle aziende che producevano software e che questa produzione senza regole e senza controllo generava un conseguente incremento dei costi.

Come  si scrivono oggi i programmi per gli elaboratori elettronici in Italia?

È stato verificato se c’è un eventuale ingiustificato incremento dei costi ICT nella PA italiana?

La PA italiana ha personale in grado di controllare se il software che viene acquistato dalla stessa, è stato prodotto con specifiche tecniche per renderlo leggibile, modificabile ed integrabile da chiunque?

La ditta che produce software per la PA ha un vantaggio competitivo nella futura gestione di detto software?

Le raccomandazioni di ITIL hanno creato una sorta di standard, comunemente accettato in nome delle best practices, che lo hanno reso standard de jure nella produzione del software, detti standard vengono rispettati o, in mancanza di controlli, ogni azienda produttrice di software si è creata un suo standard de facto?

Non solo. Come si quantizza il costo di un software?

In ore di lavoro, in righe di programma, con la regola delle “function point” o con qualche altro sistema?

Ha la PA italiana personale in grado di dire: ok, il prezzo è giusto!

È  stata fissata una regola per calcolare la produzione del software in Italia?

Oppure compriamo software a scatola chiusa e senza saper vedere cosa c’è nella scatola?

In ultimo, se non c’è una regola precisa e condivisa per calcolare la produzione del software, chi quantizza e chi stabilisce il prezzo di una procedura informatica che la PA mette a gara?

È da premettere che il software è classificato dalla normativa italiana come opera dell’ingegno e sottoposto alla legge num. 633 del 21 aprile 1942 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) modificato con la legge num. 2/2008.

Art. 2 – In particolare sono comprese nella protezione: ……….. comma (8) i programmi per elaboratore, in qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore. Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. Il termine programma comprende anche il materiale preparatorio per la progettazione del programma stesso.Dunque il software è un insieme di regole operative con le quali un computer da come risultato una creazione intellettuale originale dell’autore.

Una Divina Commedia senza rima?

Non proprio. L’autore del software però è considerato come Dante, un progettista e realizzatore di un’opera dell’ingegno.

Dunque, per la SIAE italiana Bill Gates e Mark Twain sarebbero iscritti alla stessa sezione di autori.

Proprio Mark Twain disse: C’è gente tanto brava da scrivere due libri contemporaneamente: il primo e l’ultimo.

La frase si addice a molti programmatori poiché hanno scritto un solo programma e passano la vita a modificarlo e ad aggiornarlo.

Vediamo anche cosa dice la Direttiva 91/250/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1991, relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore.

Articolo 2 Titolarità dei programmi

1. L’autore di un programma per elaboratore è la persona fisica o il gruppo di persone fisiche che ha reato il programma o, qualora la legislazione degli Stati membri lo permetta, la persona giuridica designata da tale legislazione come titolare del diritto. Qualora la legislazione di uno Stato membro riconosca le opere collettive, la persona considerata creatrice dell’opera dalla legislazione di tale Stato ne è ritenuto l’autore.

2. Allorché un programma per elaboratore è creato congiuntamente da un gruppo di persone fisiche, esse sono congiuntamente titolari dei diritti esclusivi.

3. Qualora i programmi siano creati da un lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni del suo datore di lavoro, il datore di lavoro gode dell’esercizio esclusivo di tutti i diritti economici sul programma creato, salvo disposizioni contrattuali contrarie.

Se una casa editrice assumesse, come lavoratori dipendenti, degli scrittori godrebbe dell’esercizio esclusivo di tutti i diritti economici sull’opera creata, salvo disposizioni contrattuali contrarie.

Esempio: la Mondadori assume Umberto Eco, gli paga uno stipendio, gli fa scrivere “il nome della rosa” e si becca i diritti d’autore al posto dell’autore vero.

Dunque, viene da chiedersi: si può contrattualizzare l’ingegno?

Torniamo alla PA.

Ha senso che la stessa PA che stabilisce che il software è opera dell’ingegno si possa considerare proprietaria di software prodotto da personale dipendente (pubblico o privato poiché contrattualizzato da ditte che lavorano per la stessa PA)?

Chi si occupa dell’informatica della PA italiana?

Dieci anni fa avevamo l’AIPA (Autorità per l’informatica nella PA).

L’AIPA è stata, qualche anno dopo, trasformata in CNIPA (Centro Nazionale per l’Informatica nella PA).

A sua volta il CNIPA si convertì in Digit PA, ovvero Ente Nazionale per la digitalizzazione della PA.

Non bastava, perché Digit Pa è trasmutata in Agenzia per l’Italia Digitale.

Sembra che in Italia non sia tanto importante eliminare la confusione ma fare il possibile ed oltre, per moltiplicarla.

Quali norme sono venute fuori dall’AIPA che si trasformò in CNIPA che si convertì in Digit Pa che si è trasmutata in Agenzia per l’Italia Digitale? (sembra una filastrocca musicale di Angelo Branduardi)

È venuto alla luce il CAD (Codice dell’Amministrazione Digitale) che all’art. 68, tra l’altro ci dice:

le PA acquisiscono programmi informatici o parti di essi nel rispetto dei principi di economicità e di efficienza, tutela degli investimenti, riuso e neutralità tecnologica, a seguito di una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico…

Chi controlla che il CAD sia rispettato?

Chi controlla, in campo informatico, la economicità, l’efficienza e la tutela degli investimenti?

Il corriere della comunicazione riporta i dati Assinform sulla spesa ICT nella PA italiana dell’anno 2013.

Con l’esclusione della sanità la spesa complessiva ammonta a circa 5,5 miliardi di euro.

Dice Assinform: “si conferma l’elevata frammentazione dei Data Center che, come emerge anche dalla rilevazione AGID sono circa 4.000 su tutto il territorio italiano”.

Sembra che l’housing sia sconosciuto alla PA italiana e che sparsi per la penisola ci sia un esercito di dipendenti pubblici atti ogni giorno a giocare, nei centri elaborazione dati della PA, come bambini con il trenino regalato dalla befana.

Sembra che anche l’utilizzo di software Open Source sia poco conosciuto alla PA italiana e gli Open Data poco esposti. Da conti fatti alla buona si può rilevare che oltre un miliardo di euro vada nelle casse di microsoft (i dipendenti pubblici sono circa 3 milioni, ipotizziamo che 2 su tre utilizzano un pc con software proprietario, cioè windows ed office ad un costo medio di 500€ cadauno, che moltiplicato per 2 milioni ci porta alla cifra di 1 miliardo di euro).

Con un miliardo di euro si potrebbero pagare dei buoni stipendi a 20 mila ingegneri informatici italiani per farli lavorare al servizio della PA italiana. Invece, la caccia alla spending review si fa solo sulla pelle del pubblico dipendente italiano, fannullone e sfaccendato, capro espiatorio di tutti i mali del paese.

Flavia Marzano, presidente di SGI (Stati Generali Innovazione), sono anni che si batte per l’open source nella PA, anzi organizza anche dei corsi gratuiti per facilitare il suo utilizzo.

Sempre Assinform: “….. si evidenzia una forte customizzazione degli applicativi installati presso gli enti con conseguente riflesso nei costi di manutenzione che gravano in misura rilevante sulla spesa complessiva”.

Dunque, ai costi base (PC, SO, applicativo d’ufficio e connessione alla rete) si devono aggiungere sia i costi per antivirus, antispam e firewall sia i costi derivati del Data Center (server, energia elettrica, climatizzazione, ecc…).

Facendo i conti della serva potremmo affermare che, sanità compresa, spendiamo annualmente 7 miliardi di euro. Dunque, negli ultimi 10 anni abbiamo speso 70, miliardi di sola ICT.

A proposito; qualcuno ha visto i servizi?

PROPOSTA

Così come per le opere pubbliche si deve esporre il cartellone con la realizzando opera, il costo, ecc… all’interno della pagina “trasparenza” si deve inserire, obbligatoriamente pena l’oscuramento del sito, una pagina dove si riporta sinteticamente:

  • L’obiettivo che si intende raggiungere anche in tema di aspettativa e di numero di visitatori mensili;

  • L’atto di indicazione politica che richiede la realizzazione del sito;

  • Il nome del progettista, del direttore dei lavori o di chi fa il monitoraggio della realizzazione, il collaudatore ed il Responsabile Unico del Procedimento;

  • Il costo di realizzazione, suddiviso in hardware, software e personale impegnato, il costo della manutenzione annuale ed il costo delle licenze d’uso;

  • La ditta che ha realizzato il sito ed il contratto stipulato;

  • I server che ospitano il sito, distinguendo se di proprietà dell’ente o noleggiati da apposite ditte esterne;

  • Se il territorio del Comune che ospita la PA realizzatrice del sito è dotato di banda larga, se è in possesso delle mappe di distribuzione della rete, consegnate all’ufficio tecnico del Comune dalle ditte che commercializzano la trasmissione dati ed il costo che queste pagano al Comune per l’utilizzo del suolo pubblico;

  • Il tempo di attività, il numero di visitatori ed il gradimento del visitatore, l’elenco dei siti internet della stessa amministrazione e la spesa annuale complessiva per l’informatizzazione.

Se è tempo di trasparenza che trasparenza sia!

Giuseppe Vella

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