Legge Pinto e procedimento disciplinare nei confronti del magistrato

Rosalba Vitale 08/12/13
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questi ultimi anni si è parlato spesso di lungaggini del procedimento per indicare il carico di lavoro cui sono sottoposti i pochi addetti ai lavori, che si trovano a fare i conti spesso con innumerevoli pratiche da smaltire in un determinato lasso di tempo.

Al riguardo, per abbreviare i tempi della giustizia, è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’ uomo in tema di giudizio di legittimità, che all’ art. 6 paragrafo 1, riconosce ad ogni persona il diritto a vedere la sua causa esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole, come componente del diritto ad un equo processo.
In Italia, chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per la violazione della Convenzione di Strasburgo, ha uno strumento di tutela, in base alla Legge Pinto (L. 89/2001) potrà ottenere un equa riparazione tutte le volte che il procedimento superi un lasso di tempo ragionevole( 3 anni per il procedimento di primo grado, 2 anni per il secondo ed 1 anno per la cassazione) a prescindere dall’esito della lite e/o in caso di conciliazione della lite, costituito dal riconoscimento di una somma di denaro per ogni anno di eccessiva durata del processo pari a circa 1.000/1.500 euro, che varia in base alla gravità della causa.
Di recente, un fatto balzato agli onori della cronaca vedeva coinvolto un magistrato condannato dal Consiglio superiore della Magistratura, III sezione penale del Tribunale di Milano, con sentenza 8 febbraio 2013, alla sanzione della perdita di anzianità di due mesi, per aver come giudice del tribunale di Milano nella qualità di GIP, depositato nel periodo tra giugno-2003- marzo 2010 sentenze con un ritardo massimo di 2.246 giorni.
A parere della Sezione disciplinare, le condotte del magistrato erano da considerare reinterate, dimostrandosi inidoneo a portare a termine il proprio compito entro i tempi fissati dalla legge.
Il magistrato si difendeva e deduceva la violazione dell’ art 15 d.lgs.109/2006, dell’ art. 108 c.p.p., dell’art. 32 bis d.lgs.109/2006 e 18 r.dlgs. 511/1946, dell’ art. 2, 1° comma d.lvo 109/2006, difetto assoluto della motivazione sulla sanzione applicata, nonché illogicità della motivazione stessa.
A far luce, sulla questione, è intervenuta la Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 26284 del 25 novembre 2013, che rigettò il ricorso, su ciascuno punto sollevato dal ricorrente.
Sul primo punto, si ribatteva, che il rinvio del dibattimento ai sensi dell’art. 496 c.p.p. poteva verificarsi, solo quando vi fosse “stato un assoluta impossibilità dell’ imputato a comparire”(Cass. sez. un.11250/2003); che non vi era nullità per aver negato i termini a difesa previsti dall’ art. 108 c.p.p. presentati in ritardo, in quanto non corrispondente a una reale esigenza difensiva; nonché contraddittorietà nella motivazione.
Infatti, la motivazione edotta dal magistrato veniva rigettata sulla base del fatto, che tali ritardi avevano caratterizzato tutta la carriera del magistrato segnata anche da altri procedimenti disciplinari che non avevano inciso sulla sua condotta.
A giudizio della Suprema Corte, la condotta del magistrato comportava lesione del prestigio dell’ ordine giudiziario, una gravità dovuto a sentenze depositate con ritardo superiore al triplo del termine concesso al giudice dalla legge.
In conclusione, si potrebbe argomentare che se da una parte i ritardi nella giustizia sono legati a volte alle inottemperanze dei funzionari preposti dall’ altro non si può negare che le cause che vengono presentate in tribunale sono destinate a crescere per vari ordini di motivi, poca informativa sui mezzi alternativi di giustizia che smisterebbero il carico in tribunale e limitati incentivi alle strutture esterne preposte al tribunale che permetterebbero a quest’ ultimi di rimanere attivi, poco personale in servizio nei tribunali.
Pertanto, è auspicabile un miglioramento dei punti deboli che gioverebbe all’ interno sistema di giustizia.

Rosalba Vitale

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