Province, si va, finalmente e forse, verso una razionale riforma?

Luigi Oliveri 02/12/13
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I relatori del disegno di legge Delrio in Commissione Affari Costituzionali hanno presentato un emendamento all’articolo sulle funzioni delle province che, forse, finalmente abbandona la strada del caos abolizionista a prescindere dalla logica, imboccata dal Ministro, per intraprendere quella della razionalità, sia pure con ancora molte zone d’ombra.

Nella realtà, l’emendamento smonta totalmente il palco costruito in modo estremamente malcerto dal Ministro ed il suo staff. La stesura originale del ddl, infatti, prevedeva la conservazione in capo alle province di pochissime funzioni, e la “transumanza” delle loro funzioni, disordinatamente sminuzzate tra comuni, regioni, unioni di comuni, senza preoccupazione alcuna per le conseguenze su tributi, finanziamenti, patrimonio, contratti in essere e personale.

L’emendamento cerca di porre rimedio a questi inaccettabili vizi e lacune e, se approvato con ulteriori approfondimenti e migliorie potrebbe cambiare di 180 gradi un ddl nato molto male e trasformarlo in qualcosa di più utile (anche se in conclusione non potremo esimerci da valutazioni di insieme comunque critiche). Vediamo i punti salienti dell’emendamento.

Funzioni fondamentali. L’emendamento nella sostanza conferma in capo alle province poche funzioni fondamentali:

Le province di cui all’articolo 11, quali enti con funzioni di area vasta, esercitano le seguenti funzioni fondamentali:

a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza, con particolare riferimento alla difesa del suolo;

b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;

d) raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.

Resta confermata la sensazione che il Legislatore non abbia una chiara idea di quali siano le funzioni attualmente svolte dalle province, ma soprattutto del concetto di servizi sovracomunali.

L’elencazione contiene formule vuote, o inefficienti:

  1. cos’è la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, senza poteri di controllo e decisionali sull’attività urbanistica dei comuni, specie se riferita alla difesa del suolo? La recente tragedia della Sardegna dimostra che i comuni non sono capaci di darsi da sé regole da rispettare: troppi gli interessi in conflitto. La presenza di un soggetto terzo e un po’ più distante dal diretto elettore del sindaco sarebbe fondamentale;
  2. a che serve la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, se è staccata dalla gestione? Quali strumenti avrebbe il pianificatore per garantire il rispetto dei piani?;
  3. cos’è l’assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali? Senza precisazioni, è una formula generica, valida per tutto e il contrario di tutto. Ci può stare dentro, ad esempio, la fondamentale funzione di stazione unica appaltante? Forse. Ma il d.lgs 163/2006 attualmente la riserva alle unioni di comuni;
  4. come è possibile immaginare di programmare la rete scolastica provinciale:
    1. senza la gestione diretta del patrimonio e dell’edilizia, visto che l’attivazione di nuovi indirizzi o il dimensionamento debbono necessariamente fare i conti con gli spazi disponibili e con gli adattamenti (laboratori, palestre) e le manutenzioni connessi?
    2. Come è possibile scindere la programmazione scolastica da quella della formazione professionale, che costituisce un sistema coordinato alla prima?
    3. E come si può programmare l’istruzione e la formazione professionale, senza svolgere le politiche attive per il lavoro?

L’elencazione, dunque, si conferma eccessivamente ristretta e tale da svilire la sussistenza di un livello di governo intermedio tra regione e comune.

Funzioni ulteriori. Rimedio parziale alle lacune viste sopra lo apporterebbe il nuovo comma 2 dell’articolo 15, modificato dall’emendamento.

Esso, infatti, dispone: “La provincia può altresì, d’intesa con i comuni, provvedere alla gestione dell’edilizia scolastica con riferimento alle scuole secondarie di secondo grado”. Il Legislatore sta, finalmente, prendendo coscienza che la programmazione della rete scolastica, senza la gestione dell’edilizia (ma anche del patrimonio) non può materialmente avere efficacia.

Tuttavia, il rimedio proposto è troppo labile. Infatti, la connessione diretta, che è assolutamente oggettiva e indiscutibile, tra edilizia e programmazione scolastica, viene considerata facoltativa e lasciata a defatiganti, burocratiche, ridondanti intese con i comuni. Una fatica operativa inutile in più rispetto all’attuale quadro, nel quale le province agiscono su un patrimonio proprio, con intuibili maggiori facilità nell’adozione delle decisioni.

Sussidiarietà verticale. La messa in discussione dell’impianto originario del ddl Delrio sta, comunque, nel comma 3 dell’articolo 15 come fissato dall’emendamento.

Qualcuno, evidentemente, si è ricordato dell’articolo 118 della Costituzione, il cui comma 2 renderebbe comunque incostituzionale o, in ogni caso, vanificherebbe intenti di puro e semplice e acritico “svuotamento” delle province. Dispone il citato comma 2: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

Pertanto, al di là delle funzioni fondamentali, anch’esse da assegnare sulla base di una valutazione della funzionalità e adeguatezza che il comma 1 pare aver trascurato, il sistema prevede, correttamente, una flessibilizzazione dal basso verso l’alto, dell’assegnazione delle funzioni amministrative, per la semplice ragione che appunto la dimensione sovracomunale non può essere svolta da strutture poste a garantire una gestione migliore di carattere “intercomunale”, come le tanto sbandierate unioni di comuni. Esse hanno la sola utilità di consentire ai comuni piccoli e poco strutturati di provare a svolgere meglio le funzioni tipicamente comunali: esempio calzante è la possibilità di più comuni di mettere insieme i pochi vigili alle dipendenze, per creare un corpo di polizia municipale. La gestione sovracomunale con le unioni di comuni non ha nulla a che vedere.

Le leggi statali e regionali, valutate le esigenze operative connesse a funzioni che non possono stare costrette entro le mura cittadine (lavoro, turismo, pianificazione, etc…) conservano comunque il potere di allocare in modo più producente le funzioni “non fondamentali”.

Il comma 3 dell’emendamento ci prova:

Lo Stato e le regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono al riordino delle funzioni esercitate dalle province, diverse da quelle di cui al comma 1 e fermo restando quanto previsto dal comma 2, in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione, con le modalità e nei termini stabiliti dal presente articolo e sulla base dei seguenti principi:  

a) conferimento ai comuni, perché le esercitino singolarmente o mediante unioni di comuni, delle funzioni, già esercitate dalle Province, il cui esercizio non corrisponde più ad esigenze unitarie o consente di svolgere più efficacemente le funzioni fondamentali comunali come individuate ai sensi dell’articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2011 e all’esercizio associato obbligatorio ivi previsto;

b) assunzione da parte delle Regioni delle funzioni che rispondono a riconosciute esigenze unitarie;

c) adozione di soluzioni gestionali e organizzative orientate all’efficienza e all’efficacia, ivi comprese, con intese o convenzioni, l’avvalimento e le deleghe di esercizio, valorizzando anche le autonomie funzionali”.

Tale formulazione modifica radicalmente l’impostazione originaria del Ministro Delrio, che considerava centrali solo comuni e unioni di comuni, con residue e limitate possibilità per le regioni di intervento.

In sostanza, si stabilisce che anche il lotto delle molteplici funzioni provinciali non considerate provinciali, possano restare in capo alle province, ma, soprattutto, opportunamente, si scarta la visione secondo cui possano essere i comuni o le unioni di comuni i naturali destinatari delle funzioni sottratte alle province.

La lettera a) del comma 3, infatti, ammette l’assegnazione ai comuni delle funzioni provinciali non più considerabili connesse ad esigenze unitarie, meglio dire, a gestioni sovracomunali. Un esempio. In Veneto, le province sono state incaricate della gestione dell’assistenza ai figli riconosciuti da un solo genitore. E’ evidente la forzatura. Le province sono state gravate di una funzione tipicamente comunale, che può e, forse, deve essere meglio svolta assegnandola al livello comunale (alcune province hanno delegato le competenze ai comuni, infatti).

Non si vede come, invece, le funzioni attinenti alle politiche attive per il lavoro possano essere frammentate verso i comuni. Lo comprova, del resto, il dibattito aperto relativo alla riforma della materia, che oscilla tra la costituzione di un’agenzia nazionale o invece agenzie regionali “federeate”: un livello territoriale ovviamente più ampio di quello comunale, per la semplice ragione che i mercati del lavoro, i distretti, i sistemi di trasporto, le zone industriali e commerciali, i sistemi di formazione e scolastici, sono di livello evidentemente più ampio di quello comunale.

La lettera b) conferma quel che già prevede la Costituzione e lascia alle regioni la possibilità di assumere direttamente la gestione delle funzioni provinciali che richiedono unitarietà gestionale a livello regionale.

In presenza di un’abolizione totale delle province, questa appare l’unica soluzione razionale e corretta. Se lo scopo è ridurre i livelli di governo, i centri decisionali, accorpare e provare ad ottenere economie di scale, è chiaro che la frammentazione verso i comuni e le unioni di comuni è pura follia.

In presenza di un disegno più articolato, come quello che propone l’emendamento, la scelta delle regioni di riappropriarsi di funzioni che 10 anni fa hanno assegnato alle province potrebbe non rivelarsi né utile, né urgente, né essenziale. Ma, almeno è funzionale ad evitare la polverizzazione antieconomica, illogica, dispersiva, verso i comuni e le loro unioni.

La lettera c) apre spazio ad ulteriori modelli organizzativi che già, per la verità esistono, come le convenzioni e le deleghe di funzioni. In più, reintroduce l’istituto dell’avvalimento, cioè la possibilità per un ente di svolgere funzioni proprie, avvalendosi degli uffici di un altro ente, previsto dal vecchio testo dell’articolo 118 della Costituzione, poi abolito dalla legge costituzionale 3/2001.

L’emendamento restringe, comunque, di molto la possibilità per lo Stato di svuotare del tutto le province, e consente a ciascuna regione di rivisitare l’assetto organizzativo previsto in applicazione del d.lgs 112/1998, ma senza dover stravolgere le province.

Il punto debole della disposizione contenuta nel comma 3, lo si rinviene nel comma 5, ai sensi del quale “Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, Stato e Regioni individuano in modo puntuale, mediante accordo sancito in Conferenza unificata, le funzioni di cui al comma 3 oggetto del riordino e le relative competenze”.

La determinazione delle funzioni, che dovrebbe essere immanente e parallela all’approvazione della legge di riforma delle province, viene rinviata a data imprecisata, considerando che il termine di tre mesi previsto è solo ordinatorio: occorre ricordare che un analogo Dpcm si attende dall’agosto 2012 e non ha mai visto la luce.

Per altro, il Dpcm potrebbe riguardare esclusivamente le funzioni attribuite alle province dallo Stato. La ricognizione delle funzioni assegnate dalle regioni non può che essere di stretta ed esclusiva pertinenza regionale e non si vede quale necessità possa esservi, per questo ambito, di un accordo con lo Stato.

Ancora, lascia abbastanza perplessi il coinvolgimento, sia pure con una flebile formula, delle organizzazioni sindacali. Esse possono e debbono avere un ruolo per quanto concerne la fissazione di criteri e modalità connessi alle sorti del personale inserito in strutture competenti a svolgere funzioni e servizi traslati verso comuni o regioni, ma non si capisce davvero la legittimazione al coinvolgimento un una funzione tipicamente organizzativa e, dunque, totalmente unilaterale dell’amministrazione.

Tra l’altro, l’emendamento pensa di coinvolgere soggetti carenti di legittimazione, come i sindacati, ma dimentica di prevedere che all’accordo partecipano i soggetti direttamente interessati, cioè le province stesse. E’ un fatto che né Stato, né regioni, abbiano corretta contezza delle funzioni trasferite alle province, né delle loro implicazioni e delle connessioni, come l’evoluzione del ddl Delrio in merito, ad esempio, all’edilizia scolastica dimostra ampiamente. E’ davvero disdicevole che in un complicatissimo percorso di revisione di funzioni e competenze restino estranei proprio gli enti che lo subiscono e che più di tutti conoscono i dettagli delle conseguenze organizzative.

Servizi pubblici.Il comma 4, allo scopo di evitare la dispersione del valore del patrimonio e della produzione dei servizi resi dalle società di gestione di servizi pubblici di rilevanza economica a rete, incentiva le regioni ad assorbirle, per garantire la continuità, una volta che leggi statali e regionali abbiano soppresso le società e gli enti di gestione.

Successione nei beni, contratti, patrimonio. Il comma 6 del nuovo articolo 15 come modificato dall’emendamento prova a rimediare ad una delle più aberranti lacune del ddl Delrio: la mancanza assoluta di una sia pure minima regolazione dei rapporti patrimoniali, contrattuali e lavorativi derivanti dalla traslazione di funzioni e competenze delle province verso altri enti.

Purtroppo, sebbene i relatori si siano sforzati di comprendere che si tratta di un problema assolutamente non trascurabile, l’emendamento dimostra che ancora non si è compiuto il passo decisivo: comprendere che prima occorre determinare nel dettaglio le conseguenze finanziarie e patrimoniali, poi intervenire sulle norme finanziarie e contabili, poi, ancora, fissare quali servizi possono essere traslati e solo alla fine determinare le modifiche degli assetti organizzativi e funzionali.

L’emendamento, dunque, focalizza i problemi, ma ne rinvia le soluzioni:

Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con i ministri della pubblica amministrazione e dell’economia e delle finanze, sono stabiliti, entro tre mesi dall’accordo di cui al comma 5, previa intesa con la Conferenza unificata, i criteri generali, secondo quanto stabilito dal comma 9 per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni che devono essere trasferite, ai sensi del presente articolo, dalle Province agli enti subentranti, garantendo i rapporti di lavoro a tempo indeterminato in corso, nonché quelli a tempo determinato in corso fino alla loro scadenza prevista. In particolare, sono considerate le risorse finanziarie, già spettanti alle Province ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, che devono essere trasferite agli enti subentranti per l’esercizio delle funzioni loro attribuite, dedotte quelle necessarie alle funzioni fondamentali e fatto salvo comunque quanto previsto dal comma 2. Sullo schema di decreto, per quanto attiene alle risorse umane, sono consultate le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”.

Come si nota, ci si affida alla salvifica e miracolosa capacità di Dpcm adottati a seguito di defatiganti e complesse intese (sempre in assenza delle province), per la soluzione a valle di problemi che sono, invece, da considerare a monte della riforma:

a)                          la fissazione dei criteri generali per individuare risorse finanziarie, umane, strumentali ed organizzative connesse all’esercizio delle funzioni da trasferire. Un tema complessissimo, delicatissimo, che si pensa di poter risolvere in appena 3 mesi dall’approvazione della legge, quando, invece, occorrerebbe che la legge venisse approvata essendo già chiari detti criteri;

b)                          la garanzia dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e determinato in corso. Che il legislatore insista su questo tema, appare assai curioso. Se le funzioni sono solo traslate da un ente all’altro, è ben evidente ed automatico che i rapporti di lavoro non possano essere messi in discussione. Sarebbe, semmai, utile precisare che il percorso di riforma non fa scaturire le procedure di esubero: questa disposizione è veramente utile per non equivocare sulle sorti del personale coinvolto nella “transumanza” dalle province verso altri enti;

c)                          la specifica attenzione verso le risorse finanziarie delle province, che debbono traslare verso gli enti subentranti insieme con le funzioni.

Quest’ultimo è il problema dei problemi, cosa che ancora il legislatore non ha ben chiaro. C’è, evidentemente, qualcuno che pensa che esista una diretta connessione tra entrate delle province e funzioni svolte. Tale convinzione sarebbe corretta se esistessero entrate, derivanti da trasferimenti statali e regionali, con vincoli di destinazione per le funzioni esercitate dalle province. E’ evidente che i redattori del disegno di legge non sono al corrente delle riforme disposte, negli ultimi anni, dalle varie manovre economiche, per effetto delle quali:

a)                          i trasferimenti dello Stato sono stati quasi totalmente azzerati ed il fondo sperimentale di riequilibrio per le province non ha più finanziamento;

b)                          in ogni caso, anche prima dell’azzeramento imposto dalle manovre del Governo Monti, il fondo era unico e non tracciava una connessione diretta tra somme erogate e servizi svolti;

c)                          alcune funzioni conferite dalle regioni mantengono ancora un minimo di tracciamento, ma tantissime regioni hanno, negli anni, drasticamente ridotto, quando non azzerato, i finanziamenti per le funzioni trasferite.

Di conseguenza, le entrate delle province sono ormai quasi solo entrate proprie, tributarie e patrimoniali e, sulla base dei comunissimi principi di bilancio, finanziano interamente ed in modo indifferenziato le connesse spese.

Non c’è, dunque, un sistema automatico (gestibile, comunque, in soli 3 mesi) per fissare un’equivalenza diretta tra funzione trasferita e risorse in entrata che le finanziano.

Soprattutto, poiché la gran parte delle entrate delle province sono tributarie, occorre modificare il sistema dei tributi locali ed attribuire agli enti subentranti la titolarità del gettito. Ma, come si può ripartire, con criteri che non siano del tutto arbitrari e sballati, l’entrata derivante dall’imposta sulle trascrizioni dei veicoli tra province, per la gestione delle residue funzioni, comuni (quali? Quanti?) e regioni?

Infatti, il ddl Delrio, nell’incapacità e per l’incapacità di affrontare e risolvere questa questione decisiva e centrale, immagina che le province restino a riscuotere le entrate, per poi riversarle agli enti destinatari. E questa sarebbe la “semplificazione” verso la quale tenderebbe la riforma…

La cosa da stigmatizzare è che l’emendamento coglie l’enormità della questione, ma, ancora una volta, lascia la riforma a metà e rinvia a tempi migliori, col comma 10:

Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 6, uno o più decreti legislativi, previo parere della Conferenza unificata, della Commissione per il coordinamento della finanza pubblica e delle Commissioni parlamentari competenti per materia, in materia di adeguamento della legislazione statale sulle funzioni e sulle competenze dello Stato e degli enti territoriali e di quella sulla finanza e sul patrimonio dei medesimi enti nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

a) applicazione coordinata dei principi di riordino delle funzioni di cui alla presente legge e di quelli di cui agli articoli 1 e 2, ai Capi II, III, e IV, nonché agli articoli 16 e 19 della legge n. 42 del 2009, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica;

b) le risorse finanziarie, già spettanti alle Province ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, dedotte quelle necessarie alle funzioni fondamentali e fatto salvo quanto previsto all’articolo 2, sono attribuite agli enti che subentrano nelle funzioni trasferite, in relazione ai rapporti attivi e passivi oggetto della successione, compresi i rapporti di lavoro e le altre spese di gestione;

c) le risorse devono essere adeguate a far fronte alle spese derivanti dal trasferimento delle funzioni.

Insomma, tutto quello che dovrebbe essere antecedente o quanto meno parallelo alla riforma, viene rinviato di un anno, sempre precisando che si tratta di termine ordinatorio e non perentorio. Per altro, il Governo è impegnato a riformare la Costituzione ed abolire definitivamente le province (ricordiamo che il ddl Delrio avrebbe lo scopo di modificare le province per attuare le conseguenze di un disegno di legge costituzionale ancora non vigente…) ben prima dei termini immaginati dall’emendamento per una necessaria e così profonda riforma sulla finanza e patrimonio degli enti locali.

Insomma, ci sarebbe il rischio che mentre il Governo pensa ancora a come modificare gli assetti normativi ed organizzativi della finanza pubblica, in conseguenza dello svuotamento delle province e dell’attribuzione di buona parte delle loro funzioni a comuni e regioni, vengano del tutto a mancare le province, determinandosi un vuoto organizzativo semplicemente spaventoso.

Singolare, poi, è, tra i criteri previsti dal comma 9 dell’emendamento, volti a disciplinare il trasferimento delle funzioni, quello contenuto nella lettera d): “gli effetti derivanti dal trasferimento delle funzioni non rilevano, per gli enti subentranti, ai fini del patto di stabilità, della disciplina delle spese di personale, compreso il rapporto tra spese correnti e spese di personale, della disciplina sui limiti alle assunzioni in rapporto al turnover, della disciplina sui limiti dell’indebitamento, nonché di ogni altra disposizione di legge che, per effetto del trasferimento, può determinare inadempimenti dell’ente subentrante, nell’ambito di variazioni compensative a livello regionale ovvero tra livelli regionali o locali e livello statale, secondo modalità individuate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e delle autonomie locali, sentita la Conferenza unificata, che stabilisce anche idonei strumenti di monitoraggio”.

Insomma, incredibilmente spese e divieti valevoli, a carico delle province, per il patto di stabilità e la garanzia di tetti alle assunzioni del personale, miracolosamente, se le funzioni provinciali passano verso altri enti, cessano di valere. L’idea, sul piano finanziario completamente insostenibile se non si individuano coperture di altra natura, è quasi di azzerare il contributo complessivo che le province danno al patto di stabilità.

E’, oggettivamente, un paradosso. Le province in pochissimi anni, dal 2008 ad oggi, hanno visto ridotte le proprie entrate da 13 a 10 miliardi. Hanno ridotto, conseguentemente, le loro spese di un volume che nessun’altra amministrazione ha nemmeno lontanamente avvicinato, dimostrandosi estremamente virtuose e capaci di riorganizzarsi, nonostante una riduzione dei finanziamenti del 25%, pur rimanendo costrette a rispettare patto di stabilità e, dunque, relativi vincoli agli investimenti (si pensi agli impedimenti per gli interventi sull’edilizia scolastica) e totalmente inchiodate, impossibilitate a rilanciare, con personale nuovo e maggiore, servizi strategici come quelli per il lavoro. Ebbene, vi sarebbe la incredibile (ma, in realtà, inattuabile) beffa che gli enti subentranti, invece, potrebbero giovarsi della sottrazione delle spese connesse alle funzioni ricevute, dai vari vincoli esistenti.

Personale. Sulle sorti del personale il Ministro Delrio e le organizzazioni sindacali, anche per effetto dell’incredibile protocollo d’intesa siglato il 19 novembre in assenza delle province, hanno creato una confusione indescrivibile.

L’emendamento, al comma 9, prova e mettere un po’ di ordine. Si stabilisce che “il personale trasferito mantiene la posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in godimento all’atto del trasferimento, nonché l’anzianità di servizio maturata”. E questo, francamente, appare il minimo, considerando che i trasferimenti non sarebbero conseguenza di esuberi dovuti all’azzeramento delle funzioni, ma ad una riorganizzazione ostinatamente perseguita dal Governo, pur in assenza di evidenti utilità ed opportunità, come ha chiarito la Corte dei conti nella sua audizione alla Camera.

Allo scopo di garantire al personale provinciale il mantenimento delle posizioni economiche in godimento, senza incidere negativamente sul salario accessorio degli enti acquisenti le funzioni provinciali, si prevede che le risorse connesse al personale transitato “sono trasferite all’ente destinatario; in particolare, quelle destinate a finanziare le voci fisse e variabili del trattamento accessorio, nonché la progressione economica orizzontale, secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali vigenti”.

Per evitare confusione, l’emendamento precisa che tali risorse “vanno a costituire specifici fondi, destinati esclusivamente al personale trasferito, nell’ambito dei più generali fondi delle risorse decentrate del personale delle categorie e dirigenziale”. Si garantisce, quindi, distinzione ed autonomia tra i fondi decentrati “storici” e le risorse decentrate specificamente destinate al personale trasferito. Nei confronti del quale “I compensi di produttività, la retribuzione di risultato e le indennità accessorie del personale trasferito rimangono determinati negli importi goduti antecedentemente al trasferimento e non possono essere incrementati fino all’applicazione del contratto collettivo decentrato integrativo sottoscritto conseguentemente al primo contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato dopo l’entrata in vigore della presente legge”. Una formula, questa, molto semplice, che poteva da sempre essere utilizzata per scongiurare i pericoli, oggettivamente insussistenti, di incremento dei costi del personale, in caso di transito verso le regioni, ove il costo medio del personale è molto più alto che nelle province.

Considerazioni finali. Dato atto che l’emendamento costituisce sicuramente un progresso rilevante rispetto alla pochezza e lacunosità del ddl inizialmente presentato, se davvero, anche rimediando ai difetti comunque presenti nell’emendamento, si dovesse seguire la strada da esso indicata, resterebbe, però, occorre chiedersi: che senso ha simile riforma?

Da un lato, essa, se venisse fuori come immaginata dall’emendamento (meglio se corretto nei suoi ancora molti difetti) disegna un assetto dell’organizzazione degli enti territoriali stabile e delineabile, in totale contrasto con l’intento di abolire le province. La legge costituzionale che le abolisse, renderebbe necessario un’ulteriore riassetto patrimoniale, finanziario, contrattuale ed organizzativo, in pochissimo tempo, gettando nel caos il sistema.

In secondo luogo, poiché, nella sostanza, l’emendamento favorisce il mantenimento in capo alle province delle funzioni anche non fondamentali (con l’eccezione delle poche – di matrice statale – attribuibili ai comuni e delle ancor minori che saranno riacquisite dalle regioni), che senso ha andare avanti nella riforma, oltre a quello, comprensibile ma non giustificabile, di far vedere che il Governo ha comunque mantenuto la demagogica promessa di intervenire sulle province?

Non sarebbe, per una volta, più serio svelare la demagogia delle pulsioni giornalistiche che vogliono lo scalpo delle province, fare proprie le indicazioni della Corte dei conti e rinunciare ad una riforma che, se incanalata in binari più razionali, come prova l’emendamento, dimostra sempre più di essere solo una complicazione degli affari semplici?

Luigi Oliveri

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