Il caos organizzativo del dopo abolizione delle province

Luigi Oliveri 02/08/13
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Per comprendere gli effetti paradossali della riforma delle province, come delineata nel disegno di legge del Ministro, basta riferirsi a due esempi. Che dimostrano come il Governo, il Parlamento, le forze politiche e la stampa che sostengono la necessità di abolire le province, stiano seguendo un percorso totalmente sbagliato e dannoso.

Fermo rimanendo che le province è perfettamente possibile abolirle, il percorso per la loro eliminazione, se l’intenzione fosse davvero seria e finalizzata a razionalizzare, semplificare e risparmiare, dovrebbe essere graduale e partire dall’analisi delle funzioni svolte, per decidere, di volta in volta, quale altro ente dovrebbe gestirle e come finanziarle. Sottraendo gradualmente alle province le funzioni, il processo non risulterebbe traumatico e caotico, come invece sarà, se si insisterà nella linea tracciata già col decreto “salva Italia”.

Soffermiamoci, come primo esempio, sulle funzioni di logistica a servizio degli istituti scolastici superiori. Esse riguardano, nella sostanza, l’attività di costruzione, manutenzione e dotazioni di arredi e laboratori per le scuole. Tale funzione è stata assegnata alle province dalla legge 23/1996. Trattandosi di legge dello Stato, essa dovrebbe essere polverizzata da una provincia ai comuni o alle unioni di comuni del suo territorio, secondo i criteri del ddl Delrio.

Quali sono le conseguenze? Pensiamo alle manutenzioni. Una provincia ha la possibilità di gestire un appalto unico, valevole per tutte le scuole: una sola procedura di gara, un unico capitolato, una direzione, una programmazione. Poniamo che subentrino i comuni, mediamente 15 in ciascuna provincia. Si moltiplicheranno per 15 le stazioni appaltanti, gli appalti, gli oneri di progettazioni, i sistemi di gestione. E’ razionalizzazione, questa?

Si dirà: ma allora è opportuno che i comuni sedi di istituti scolastici superiori si aggreghino in una unione di comuni. A parte che è difficile credere si possa costituire un’unione di comuni sostanzialmente estesa quanto tutta la provincia, sono possibili due semplici osservazioni. In simile unione, farebbe la parte del leone il comune ex capoluogo di provincia, a scapito di tutti gli sltri. In secondo luogo: che senso ha eliminare un ente che in modo aggregato nel territorio provinciale gestisce un appalto unico, per crearne un altro, per altro meno strutturato, soggetto a negoziazioni continue e convenzioni incerte e mobili, come l’unione di comuni? Nessuno.

Andiamo ad un altro esempio, l’acquisto degli arredi scolastici, annualmente necessari per il ricambio di quelli danneggiati e per garantire la crescita delle classi. La legge 228/2012 ha imposto il taglio delle spese per arredi dell’80% rispetto al 2011, coinvolgendo, in modo grandemente inopportuno, anche l’arredo scolastico. Una provincia riesce nelle pieghe del suo bilancio a fare sì che il taglio non penalizzi le necessità di arredo delle scuole e può comunque attivare un appalto unico, con una base di gara sufficiente a garantire sufficienti dotazioni d’arredo, per altro uguali, così da garantire anche più facilità di riutilizzo in caso di spostamenti e traslochi.

Subentrando più comuni o unioni, oltre a proporre il problema della moltiplicazione delle stazioni appaltanti, il taglio dell’80% in bilanci meno ampi, potrebbe portare alla conseguenza paradossale di una disponibilità complessiva inferiore per le scuole.

Inoltre, la riduzione delle basi di gara, sia per manutenzioni, sia per arredi, indurrebbe i comuni o le unioni indubbiamente ad affidamenti diretti, con opacizzazione della trasparenza e nocumento evidente alla concorrenza e trasparenza nelle gare.

Un secondo esempio. Probabilmente gli alfieri dell’abolizione delle province ad ogni costo non sanno che esse gestiscono il servizio di integrazione socio-didattica dei disabili sensoriali. Si tratta di un servizio rivolto a tutti gli ipovedenti o ipoacusici che frequentano le scuole di ogni ordine e grado, assicurato nel territorio provinciale in modo unitario: la provincia fa da unico ente committente (od organizzatore del servizio, nei rari casi di amministrazione diretta), assicurando coordinamento del servizio ed unitarietà di un servizio per il quale è fondamentale assicurare il principio della parità dei livelli essenziali delle prestazioni.

Si tratta di un servizio attribuito alle province dalle regioni, chiamate a ripartirlo tra comuni o unioni di comuni con legge regionale, dal momento che i servizi sociali non rientrano nelle funzioni assegnate alle competenze regionali ai sensi dell’articolo 117, commi 3 e 4,della Costituzione, come prevede il ddl Delrio.

Una volta polverizzato tra i comuni, è evidente che si perde l’unitarietà ed il coordimamento generale. Ciascun comune potrebbe essere indotto ad organizzare il servizio nel modo più disparato, disperdendo totalmente il know how elaborato in oltre 10 anni, anche qui col pericolo di affidamenti diretti e senza gara ad associazioni, cooperative, con dubbi anche sulla effettiva qualificazione e capacità degli operatori; non è da escludere che molti possano optare per l’assegnazione alle famiglie di contributi, così che siano le famiglie stesse a reperire il sostegno allo studio.

Pensare di dismettere di botto le province e di disperderne le competenze in comuni, comunelli e unioni di comuni, anche alla luce di questi due esempi (ma lo stesso vale per molte altre funzioni, si pensi al trasporto scolastico per diabili), è quanto di più lontano possa essere dal perseguire la riduzione dei centri di spesa e decisionali e la semplificazione.

Non sembra ci voglia molto a capire che l’unico vero effetto di semplificazione discendente dall’abolizione delle province deriverebbe dall’assorbimento delle loro funzioni da parte delle regioni, con contestuale garanzia del mantenimento dell’organizzazione territoriale su base provinciale. In questo modo si elimina davvero un livello di governo politico (con le unioni di comuni, invece li si moltiplica) e si può puntare su una vera riorganizzazione amministrativa.

Non si dica che questa scelta farebbe crescere il costo del lavoro. In primo luogo, occorre ricordare che i trattamenti economici individuali dei dipendenti pubblici sono bloccati e congelati dall’articolo 9, commi 1 e 2-bis, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010. In secondo luogo, il trasferimento dei dipendenti potrebbe ben essere accompagnato da una clausola di invarianza del trattamento economico fondamentale, che non a caso è contemplata nel ddl Delrio.

Luigi Oliveri

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