Fermare la diseguaglianza per riattivare la crescita

Redazione 04/06/13
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Nessuna vera crescita senza uguaglianza. Una crescita diseguale è infatti una crescita drogata e senza solide basi, pronta a trasformarsi in una “bomba atomica economica” e riportare indietro di anni il livello di benessere diffuso della popolazione. Parola del Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, già capo dei consiglieri economici dell’amministrazione Clinton e vicepresidente della Banca Mondiale, che ha infine sintetizzato in una formula anni di studi e ricerche su come diseguaglianza e sviluppo economico sono inversamente proporzionali.

La storia stessa insegna che una delle cause della “”ricchezza delle nazioni” risiede in un ceto medio esteso, forte, dinamico e produttivo. Ogni qual volta in cui il ceto medio è entrato in sofferenza, i Paesi sono entrati –inevitabilmente – in declino.

Nella sua ultima opera (Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi mette in pericolo il nostro futuro, 2012), Stiglitz, analizzando il caso degli Stati Uniti d’America, rileva come nei due periodi storici in cui l’1% dei ricchi (o, meglio, dei super-ricchi) è arrivato a concentrare nelle proprie mani il 25% della ricchezza complessiva del Paese, è poi scoppiata – in maniera deflagrante – una terribile recessione: è il caso sia della Crisi del ’29 che di quella attuale, esplosa nell’estate del 2008. Due crisi in parte diverse (anche se non troppo) nella genesi e nelle conseguenze, ma unite significativamente dal fatto che, alla vigilia di entrambe, la polarizzazione della ricchezza aveva raggiunto quella che sembra sempre più una soglia di guardia che diventa molto pericoloso valicare.

Ancora nel corso del 2010, quando l’intera nazione americana era nel pieno della battaglia contro la crisi, il solito 1% di popolazione super-ricca continuava a guadagnare il 93% del reddito aggiuntivo creato nel frattempo dalla fragilissima ripresa. È il momento in cui nasce il movimento “Occupy Wall Street”, all’insegna del fortunato slogan “Siamo il 99%”, cui lo stesso Stiglitz dà il proprio appoggio nella critica ad un capitalismo finanziario che – riprendendo le parole di Andrew Jackson, il Presidente Usa che nella prima metà dell’800 varò una severa legislazione contro le banche e la grande finanza dell’epoca – privatizza i guadagni e pubblicizza le perdite. L’autore, nel corso dell’opera, si appella a questa élite dell’1% ricordandole come il suo destino sia inevitabilmente legato a quello del restante 99%.

Il problema principale di tutte le economie avanzate ed altamente industrializzate, secondo l’analisi di Stiglitz, è rappresentato dalla debolezza della “domanda aggregata”, cioè la domanda di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso in un dato periodo temporale. Premesso che la porzione di reddito spesa per l’acquisto di beni e servizi è per forza di cose maggiore nei redditi bassi che non nei redditi elevati, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi (questi i dati per l’Italia) – aumentata ovunque, dove più dove meno, dalla “rivoluzione neo-liberista” iniziata negli anni ’80 (governo Thatcher in Gran Bretagna, presidenza Reagan negli Usa) – è diventata un problema strutturale (spesso dimenticato) delle economie avanzate.

Tale diseguaglianza non è semplicemente un portato delle forze del mercato (la “mano invisibile” di smithiana memoria), ma di precise scelte politiche che – incentivando le rendite finanziarie e sfavorendo gli investimenti produttivi – hanno orientato le scelte imprenditoriali ed industriali in tale direzione.

Ma meno investimenti produttivi significano, alla lunga, una economia meno dinamica e meno florida, minate alla base stessa delle sue prospettive di crescita. Laddove investire diventa sinonimo di andare alla ricerca della miglior posizione  da rendita finanziaria, viene distorto poi anche l’intero sistema creditizio poiché si riducono drasticamente i prestiti alle imprese per la realizzazione di investimenti produttivi nel settore dei beni (anche quando non si fosse in presenza di una crisi economica che porta ad una stretta sui crediti, come attualmente nei Paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi). Insomma, a risentirne è la “struttura” produttiva di un sistema Paese, la sua cosiddetta “economia reale” (a fronte di un’economia finanziaria anche galoppante… almeno fino al momento del crac!).

La teoria economica neo-liberista è sempre partita dall’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi – in una parola, fare in modo che i ricchi siano sempre più ricchi – genera un cosiddetto “effetto a cascata” che dai piani alti della società fa liberamente discendere la ricchezza fino ai piani bassi, portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita. Tanto meglio quanto più lo Stato rimane estraneo a questo processo “naturale”, liberamente guidato dalle spontanee forze economiche (idea alla base della deregulation dei mercati finanziari, ed economica in generale).

Stiglitz (e, in generale, tutti gli economisti che si richiamano alla scuola di pensiero che vede in Keynes il suo capostipite), ritiene invece che il prodotto interno lordo dei Paesi segnati dalle maggiori diseguaglianze nella distribuzione complessiva della ricchezza cresce con grande difficoltà e discontinuità, quando non va incontro a crolli (e l’esperienza gli dà ragione). Il motivo di questo fenomeno non risiede certo nell’eticità e, per così dire, nel “buon cuore” del pensiero egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede, nei ricchi (che già sono una minoranza, ancor più ristretta se poi si considera l’“1%” canonico di super-ricchi) tale propensione è più bassa, mentre è il ceto medio il vero motore dei consumi, non solo perché rappresenta una platea più larga, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi che hanno le economie avanzate per far ripartire l’intera economia (l’altra è quella di aumentare  le esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento della cosiddetta middle class.

Inoltre, continua il Premio Nobel, la diseguaglianza indebolisce il Pil non solo perché determina una diminuzione quando non un crollo dei consumi, ma anche perché determina un sistema economico in cui tendono a prevalere le rendite di posizione e gli oligopoli (quando non veri e propri monopoli). Ed un sistema del genere, tradizionalmente, è un sistema inefficiente, poco produttivo in quanto poco dinamico, non portato a ricerca ed innovazione e, in ultima analisi, segnato da sprechi di risorse (umane e materiali). Produttività e benessere complessivo del Paese segnano, di conseguenza, il passo.

Stiglitz (che proprio in questi giorni sta finendo di presentare i risultati dei propri studi a Roma al convegno della Sieds, assieme al suo più stretto collaboratore, l’italiano Mauro Gallegati) ora ci spiega tutto nella seguente formula, in cui ha condensato anni di ricerche ed il nocciolo del suo pensiero sulla crescita economica:

 

ml = 1/(1 – c)k(1/ 1 – G)

 

Quando la distribuzione del reddito diventa diseguale, la propensione marginale al consumo – c – diminuisce e l’indice di Gini – G [cioè l’indicatore della diseguaglianza in una scala da 0 (“perfetta uguaglianza”) a 1 (“massima diseguaglianza”), teorizzato dall’economista italiano Corrado Gini] – aumenta, in modo tale da far diminuire il moltiplicatore (cioè il Pil).

Un colpo durissimo, racchiuso nella chiarezza e limpidezza di una formula, al pensiero dominante di ispirazione neoliberista, che ha influenzato la politica economica degli Usa fino a tutta l’amministrazione di George W. Bush e tuttora influenza quella dell’Unione europea. Dobbiamo a questo punto augurarci, visti i fallimenti evidenti di una austerità senza speranza, ispirata al solo imperativo categorico di “tenere i conti in ordine” mentre disoccupazione e crisi sociale dilagano, di essere alla vigilia di una svolta nelle scelte di politica economica sia internazionali che – per quanto ci riguarda più da vicino – dell’Unione europea.

 

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