Il crac della Borsa di Tokyo e i pericoli del “doping monetario”

Redazione 28/05/13
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Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia nel 2008, per convincere l’amministrazione degli Stati Uniti a stimolare direttamente la crescita e lo sviluppo è sempre occorsa la minaccia – reale o fittizia che fosse – di una “invasione aliena”. Così fu la crisi del ’29 per il New Deal varato come primo atto della presidenza Roosevelt, nel 1933. Così la Seconda Guerra Mondiale per la conferenza di Bretton Woods del 1944, dove furono gettate le basi per il successivo trentennio di uno sviluppo all’insegna del “compromesso socialdemocratico” tra i Paesi del blocco occidentale. Così, da ultimo, la crisi dei mutui subprime e dei derivati esplosa proprio negli Usa nel 2008, che – sotto l’ombrello favorevole della presidenza Obama – ha determinato una politica espansiva da parte della Federal Reserve fatta a suon di costanti iniezioni di liquidità sui mercati. Una politica che, tra luci ed ombre, da allora sta sostenendo una non eccezionale ma comunque costante ripresa della prima economia mondiale.

Riprendendo la metafora usata da Krugman, si può dire che negli ultimi tre anni il Giappone abbia trovato la propria “invasione aliena” in un duplice shock: lo scavalcamento da parte della Cina, storica potenza rivale, come nuova seconda economia del pianeta nel corso del 2010; e lo tsunami di Fukushima dell’11 marzo 2011, con i suoi oltre 27.000 morti, danni per più di 200 miliardi di dollari e la più grave crisi nucleare assieme a quella di Chernobyl (1986).

In seguito a questi eventi nella classe dirigente del Giappone, Paese simbolo per eccellenza di un’economia altamente sviluppata ma segnata dalla deflazione e, negli ultimi tempi, dalla stagnazione, si è fatta larga l’idea che fosse necessario reagire in ogni modo alla diffusa sensazione di rassegnazione dominante. Il Primo Ministro Shinzo Abe, del Partito Liberal-Democratico, ha imboccato una strada simile a quella della Federal Reserve statunitense, ma elevata all’ennesima potenza. L’economia del Sol Levante, dagli ultimi mesi del 2012, è stata sottoposta a una terapia d’urto fatta di enormi stimoli indotti principalmente dalla potente Banca del Giappone, allo scopo di inondare l’intero sistema di liquidità a buon mercato, indebolendo il cambio dello yen con le altre divise nazionali ed agevolando in tal modo le esportazioni.

Dal 4 aprile scorso la Banca centrale del Giappone ha varato un piano per il raddoppiamento della base monetaria dal 28 al 56%  del prodotto interno lordo da attuarsi nei successivi due anni, acquistando dalle banche titoli di Stato per un controvalore di 1.400 miliardi di dollari. Fino a pochi giorni fa, una simile politica ultra-espansiva (da subito ribattezzataAbenomics, in omaggio al Premier nipponico) pareva inattaccabile: in pochi mesi, a fronte di una svalutazione cosiddetta “competitiva” dello yen del 30% nel cambio col dollaro, l’economia è ripartita (+ 3,5% del Pil su base annua nel primo trimestre del 2013) e la disoccupazione è calata al 4,1%. Numeri impressionanti, soprattutto se paragonati a quelli del Vecchio Continente, con un’Eurozona in recessione dove anche chi cresce lo fa di pochissimo (come la stessa “locomotiva” tedesca).

Poi, giovedì 23 maggio, la doccia gelata: in un solo giorno la borsa di Tokyo ha bruciato il 7,32% della propria ricchezza, il calo più brusco dai tempi di Fukushima (ma allora appariva giustificato dal terribile incidente), tale da assumere le dimensioni di un vero e proprio crac. La paura ha quindi contagiato l’Europa, con le principali piazze finanziarie tutte in negativo, ed in misura minore Wall Street che è riuscita a limare le perdite grazie ai buoni dati sulla diminuzione delle richieste di sussidi per la disoccupazione diffusi poco prima della chiusura. La caduta del valore dei titoli quotati sulla piazza nipponica è quindi proseguita il venerdì seguente, registrando un ulteriore -5% alla chiusura delle contrattazioni.

Cosa può avere determinato un simile risultato? I principali analisti finanziari hanno concentrato l’attenzione su tre principali fattori, che possono essere così riassunti.

1)      Il peso della globalizzazione. In un mondo oggi più che mai interconnesso, quel che accade in un luogo può sortire ripercussioni immediate altrove. Nella fattispecie, le cattive notizie di giovedì venivano proprio dalla superpotenza cinese. L’economia del Sol Levante, nonostante relazioni diplomatiche da sempre difficili, ha sviluppato ormai da anni una fortissima interdipendenza con quella della Cina, dove ha delocalizzato migliaia di impianti industriali. La nuova strategia di Pechino volta a valorizzare, dopo decenni di priorità data alle esportazioni, il mercato interno tiene ora col fiato sospeso il vicino nipponico. Così, la pubblicazione dei dati sul settore manifatturiero cinese (il secondo più grande dopo quello americano), sceso a maggio a 49,6 punti dai 50,4 di aprile contro tutte le aspettative, hanno mostrato un’economia in recessione ed alimentato, di conseguenza, timori sulla tenuta della ripresa giapponese in corso.

Come detto da Jaime Caruana, direttore della Banca dei regolamenti internazionali con sede a Basilea, “in un mondo altamente globalizzato tenere in ordine la propria casa sicuramente non basta”.

2)      Le parole sono importanti e possono prestarsi a mille interpretazioni. Il Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, giovedì scorso aveva rassicurato gli investitori sulla prosecuzione della politica espansiva di stimoli all’economia americana fatta di iniezioni di liquidità sui mercati e acquisti di Treasury Bonds (i titoli del debito statunitense). Ma tali dichiarazioni sono state poi messe in discussione dalla pubblicazione dei verbali della Fomc, il braccio operativo della Fed, facendo emergere una spaccatura nel board decisionale della più importante Banca centrale del mondo. I principali investitori, a cominciare da quelli giapponesi, detentori di una significativa fetta del debito pubblico statunitense, si sono quindi divisi fra le parole di Bernanke e quelle contrastanti dei suoi sottoposti.

3)      Debito pubblico, inflazione e bolle speculative: i nodi vengono al pettine. Il Giappone ha un debito pubblico di enormi proporzioni, ormai il primo al mondo in relazione al PIL (per un rapporto debito/Pil al 236%), ed un rapporto deficit/PIL attorno al 10%. Numeri che farebbero inorridire Maastricht ed i suoi parametri. Eppure il Giappone, a differenza di una strategia europea tutta fondata sul rigore dei bilanci pubblici nazionali, non mostra alcuna intenzione di alleggerire il debito attraverso le politiche di austerità, con i loro inevitabili effetti depressivi sull’economia.

Finora il debito pubblico giapponese è stato praticamente immune da grandi speculazioni internazionali grazie a due fondamentali garanzie: la sovranità monetaria (che consente alla Banca del Giappone di stampare yen) e la protezione rappresentata dal fatto che una elevata percentuale del debito pubblico sia detenuta dai cittadini e dagli investitori interni giapponesi (che non hanno alcun interesse di speculare contro sé stessi).

Tuttavia, la spericolata politica monetaria del Giappone (significativamente paragonata da qualche economista ad uno tsunami) inizia ad impensierire i mercati. Le massicce iniezioni di liquidità, che hanno fatto parlare – forse troppo prematuramente ed entusiasticamente – di quello giapponese come del più grande esperimento monetario della storia, determineranno sicuramente un aumento dell’inflazione che può determinare grandi problemi. Proprio il fatto che il Giappone sia storicamente terra di deflazione può portare il Governo di Tokyo a sottovalutare il problema inflazione. Il timore è infatti quello di scatenare una corsa inflazionistica che finisca fuori controllo, con il crearsi di enormi bolle speculative, aumento esponenziale dei prezzi e conseguente impoverimento dei ceti medi e bassi, crisi di solvibilità, ecc. In una simile situazione, quanto potrebbe ancora risultare “credibile” la Banca centrale del Giappone, e quanto “sicuro” un debito pubblico abnorme come quello del Sol Levante?

Per questa serie di motivi, anche il Giappone ha recentemente riscoperto i crolli di Borsa. Il fatto che la Borsa di Tokyo abbia guadagnato dal 13 novembre 2012 l’85%, salvo poi perdere un 12,3% nei soli ultimi due giorni, deve far riflettere sull’estrema volatilità dei mercati finanziari. Essa è il segno di come sia stata eccessiva la fiducia da parte degli investitori che la nuova politica economica giapponese varata dal Premier Abe non potesse che portare ad una crescita incontrastata e “inevitabile”. Quelle che fino al giorno prima apparivano certezze sono crollate come un castello di carte, rivelando la debolezza delle loro basi.

Quanto avvenuto è anche il segno di come borse ed economia reale vivano, sempre più in questo periodo, su due pianeti diversi. Dopo mesi di spensierata euforia, anche un ribasso tutto sommato modesto, ma inatteso, come quello dell’indice dell’industria manifatturiera cinese può trasformare una piccola palla di neve posta sulla cima di una montagna in una valanga a fondo valle. Parole apparentemente rassicuranti come quelle del Presidente della Fed Bernanke, poste a confronto con altre della stessa Banca centrale che appaiono di senso contrario, possono di colpo svelare scheletri nell’armadio che si credevano dimenticati da tempo.

Il modello vincente per l’uscita dalla crisi è probabilmente quello posto a metà strada tra l’austerità senza crescita cui si è affidata, purtroppo, l’Unione europea (salvo possibili cambi di rotta all’orizzonte), e una politica economica all’insegna dello “stampa e cresci” messa in piedi da Usa e Giappone.

Ma, come si diceva, ci troviamo in una fase di piena “sperimentazione monetaria”, con tutti i rischi che ogni sperimentazione comporta, e nessuno sa dire cosa succederà nel lungo periodo.

 

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