Caso Cogne: la Cassazione nega i permessi alla Franzoni

Redazione 31/07/12
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Anna Maria Franzoni, condannata a sedici anni di reclusione per aver ucciso il 30 gennaio 2002 a Cogne (Aosta) il figlio neonato Samuele, non avrà la possibilità di richiedere permessi premio per uscire dal carcere dal momento che il reato commesso è grave e le regole stabilite dall’Ordinamento penitenziario prevedono che sia così per almeno altri 4 anni. E’ tutto quanto spiegato nella sentenza 31059 depositata ieri dalla Cassazione che spiega i motivi del rifiuto ai permessi deciso nell’udienza tenutasi lo scorso 4 luglio.

E’ opinione della Prima sezione penale della Suprema Corte che a discapito della Franzoni valga il principio della “preclusione temporale”, in virtù della pena fino a questo momento scontata, per cercare di chiedere di passare tre giorni al mese con la famiglia. I detenuti che si macchiano di un reato così grave come quello della “mamma di Cogne”, sostiene la Cassazione, così come coloro che vengono condannati per mafia e terrorismo, debbono attendere di aver trascorso, in carcere, almeno metà della pena. Dunque la Franzoni, vista questa disposizione, per i giudici dovrà osservare ancora “dodici anni, tre mesi e dodici giorni per omicidio aggravato”.

Sono, allora, ancora 4 gli anni che, la signora Franzoni, dovrà aspettare per provare ad uscire dalla cella. Non ha avuto successo la tesi dei suoi legali, Lorenzo Imperato e Paola Savio, che propendevano per il “contrasto con i principi dell’Ordinamento penitenziario e della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena e che ogni rigido automatismo, nella concessione dei permessi, è in linea di principio da ritenersi sempre superabile”. C’è di più la condanna sarebbe pertinente “un fatto isolato, e la donna è priva di precedenti penali ed è perfettamente inserita nel contesto familiare”. La Cassazione non è stata, però, dello stesso parere per cui il ricorso è stato ritenuto “infondato”.

“E’ manifestamente da escludere – spiegano i supremi giudici – la violazione dell’art. 27 della Costituzione, rientrando nella piena e insindacabile discrezionalità del legislatore la modulazione della disciplina dei permessi premio, anche in funzione della gravità del titolo del reato e con previsione di soglie differenziate per l’ammissione al beneficio, in rapporto alla durata della pena espiata nella prospettiva della progressività del trattamento”.

E’ questo, in definitiva, il verdetto che oblitera la decisione resa nota lo scorso 25 ottobre dal Tribunale di sorveglianza di Bologna. La Suprema Corte ha aderito pure ai suggerimenti espressi dal sostituto procuraotore generale Gabriele Mazzotta che aveva obiettato che “l’automatismo del divieto di concessione dei permessi premio, prima di un certo tempo, non compromette la funzione rieducativa della pena”. Non è la prima volta che la “mamma di Cogne” chiede un permesso, era già successo nell’agosto del 2010 quando lo richiese per assistere il suocero malato, anche in quella circostanza le fu negato nonostante poi il suocero sia deceduto nel giro di un mese. Dura lex sed lex.

Redazione

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