La Corte Costituzionale (sent. 338/2011) riscrive ancora il Testo Unico degli Espropri

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Deve segnalarsi che, con sentenza 22 dicembre 2011 n. 338, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 7, del D.P.R. 327/2001 e s.m.i. (T.U. espropri) che disciplinava l’obbligo del soggetto espropriante di porre a confronto l’indennità di espropriazione per aree edificabili con l’ultima dichiarazione o denuncia ai fini ICI, comportando una riduzione dell’indennità di esproprio nei casi in cui il valore dichiarato o denunciato ai fini ICI dal proprietario risultasse inferiore all’indennità d’esproprio determinata secondo i criteri di legge.

Ne deriva, per conseguenza, che a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione (prevista nella G.U. del 28/12/2011) della sentenza in questione, deve intendersi venuto meno l’obbligo dell’autorità espropriante di chiedere alle ditte espropriande l’esibizione dell’ultima dichiarazione o denuncia presentata dalle medesime Ditte a fini ICI prima della determinazione della indennità d’esproprio per aree edificabili.

Non può sottacersi, tuttavia, come la pronuncia della Corte corra il rischio, nell’attuale momento storico, di incentivare comportamenti dei proprietari – forse comprensibili ma non giustificabili – che rendano difficoltose le difese fiscali dell’ordinamento in materia, specie laddove il legislatore – indirettamente ma espressamente invitato dal giudice costituzionale a non trascurare l’irrogazione di sanzioni per dichiarazioni/denunce ICI non particolarmente “limpide” – non riesca a trovare un rapporto equilibrato (in termini di ragionevolezza e proporzionalità) fra la sanzione tributaria e la misura dell’indennità da ridurre. In altre parole, vi è un limite (il nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà ossia un nucleo minimo dell’indennizzo) sembra dire la Corte, sotto il quale il legislatore non potrebbe mai scendere anche se il proprietario giungesse a dichiarare/denunciare a fini ICI valori irrisori della sua proprietà o addirittura a non effettuare alcuna dichiarazione.

Questo vorrebbe dire (la domanda sorge spontanea ma gli agguati intellettuali sono sempre dietro l’angolo) che, nelle procedure espropriative, il soggetto (autorità) espropriante deve seguire le regole, procedurali e sostanziali, indennitarie ordinarie, pagando e liquidando gli indennizzi in caso di accettazione/condivisione; depositandole in caso di rifiuto. E, successivamente (quando, in sede di controllo delle dichiarazioni dei redditi? oppure nei controlli a campione?), il soggetto (autorità) “fiscale” che dovesse accertare dichiarazioni infedeli (evasione parziale o totale dell’ICI) potrebbe intervenire, a posteriori, sulla indennità di espropriazione erogata (o depositata) in precedenza (la Corte parla di “… sanzioni che, eventualmente, incidano anche sull’indennità …”).

Se è chiaro il messaggio della Corte, si dovrebbe ritenere che il soggetto espropriante non può assumere il ruolo di “agente fiscale” in relazione alle somme da erogare/depositare a titolo d’indennità.

Ma, come si giustifica allora e in quale contesto deve collocarsi, in senso ampio, la ritenuta del 20% sull’indennità che l’art. 35 T.U. espropri pone a carico dell’espropriante prima della liquidazione dell’indennità condivisa? E, soprattutto, se è vero che oggi tale ritenuta si opera su una indennità calcolata in base al valore venale, cosa devono pensare quei proprietari espropriati e assoggettati alla ritenuta nel precedente regime1 quando, cioè, l’indennità era ricondotta alla metà del valore venale se non anche ad un terzo? In particolare, pensando alle odierne parole del giudice costituzionale secondo cui non si può “sacrificare illegittimamente il diritto di proprietà” (leggi, anche indennità di esproprio) all’esclusivo interesse finanziario?

Antonino Cimellaro

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