La tutela degli interessi diffusi in materia di Patrimonio Culturale

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La tutela degli interessi diffusi in materia di Patrimonio Culturale

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Questo modesto contributo muove da un semplice assunto: l’Italia è una terra ricca di espressioni culturali immateriali che compongono l’eterogeneo concetto di Patrimoni Culturali vivi (il plurale è d’obbligo per come si vedrà infra) i quali – secondo l’UNESCO e diversi, illuminati, giuristi, necessitano di una tutela urgente ed efficace, al fine di mantenerli vivi o, al più, di preservarne la memoria.

Del resto, come insegna l’illustre giurista M.S. Giannini, la tutela del Patrimonio Culturale è necessaria per garantire ai posteri la fruibilità dei beni o la loro conoscenza e, come sostiene un altro giurista, Ainis, le memorie ereditate dal passato sono beni da tutelare.

 

COS’E’ IL PATRIMONIO CULTURALE?

L’UNESCO ha più volte ribadito la necessità che gli Stati firmatari approntino misure adeguate alla tutela del Patrimonio culturale immateriale, definito come “(…) le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile” (Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 17 ottobre 2003).

Com’è noto, il nostro Legislatore ha recepito la Convenzione (insieme alla Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità culturali del 20 ottobre 2005)  inserendo nel corpus normativo del D.Lgs. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) l’art. 7/bis, rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”, il quale stabilisce che “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale  e  per  la  protezione  e la promozione delle diversità culturali,  adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il  20  ottobre  2005,  sono  assoggettabili  alle  disposizioni  del presente   codice   qualora   siano  rappresentate  da  testimonianze materiali   e   sussistano   i   presupposti   e  le  condizioni  per l’applicabilità dell’articolo 10”.

Senza troppo soffermarci sull’applicazione della norma, che ho avuto modo di trattare in precedenza (V. articolo su LeggiOggi “Quale diritto per la musica popolare?” in cui tratto il tema della tutela riflessa in riferimento alla musica folk, ma V. anche “La tutela giuridica del Patrimonio Culturale immateriale”, in http://www.laputea.com/it/cultura-salento/jus/tutela-giuridica-patrimonio-culturale in cui sintetizzo il lavoro svolto nella mia tesi di laurea), quello che più interessa in questa sede è il concetto di tutela per siffatte espressioni culturali e, di riflesso, l’interesse di determinati soggetti giuridici alla concreta applicazione degli strumenti di tutela ad opera dell’Ordinamento.  Ma prima è necessario chiarire un concetto.

 

PERCHÉ IL PATRIMONIO CULTURALE SI DECLINA AL PLURALE?

Nel campo delle scienze antropologiche non si parla mai di Cultura, ma di Culture. Il concetto di Cultura in senso antropologico si declina sempre al plurale, perché ogni territorio, ogni ambiente sociale, ogni nucleo sociale, pur inserito in un contesto sociale più grande, ha una propria struttura, lingua, credenze, riti, storie, musiche.

Del resto anche il nostro Ordinamento ha recepito la definizione antropologica di Cultura, basti pensare alla L. 482/99, al cui Art. 1 è così stabilito: “La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresí la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”.

Dunque è bene sgombrare subito il campo da dubbi e incertezze e chiarire subito che la tutela del Patrimonio culturale si può attuare solo se si comprendono a fondo le sue multiformi ed eterogenee espressioni, che necessitano di strumenti di tutela diversificati e contingenti.

 

PERCHÉ LA TUTELA?

Molto si è fatto, negli ultimi anni, in tema di promozione turistica dell’Italia e dei tanti territori che la compongono, molte sono state le politiche illuminate in tema di valorizzazione e promozione dei beni culturali immateriali (basti pensare al numero considerevole di leggi regionali sul tema), ma tutte queste illuminate politiche di promozione e valorizzazione rischiano di danneggiare anziché mantenere in vita i Patrimoni Culturali. Vediamo subito perché.

Come molti giuristi sanno, il tema della promozione e della valorizzazione dei beni culturali è solo successivo a quello della loro tutela.

Come stabilisce il D.Lgs. 42/2004 all’art. 3, La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”. Mentre la valorizzazione (art. 6) “consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale”.

Detto in altri termini, la tutela è necessaria per conservare la memoria delle espressioni culturali immateriali, mentre la valorizzazione serve a diffondere la loro conoscenza.

Ciò detto e chiariti i due concetti, non può sottacersi che in un quadro di sostanziale vuoto normativo, i Patrimoni Culturali italiani stanno scomparendo sotto gli occhi di tutti o stanno subendo mutamenti genetici ad opera del mercato e del mercato turistico di massa.

Al fine di far comprendere meglio la gravità di queste parole è necessario portare qualche esempio pratico, ma solo dopo aver tracciato i confini giuridici e riaffermato determinati concetti.

Anzitutto va detto che l’Art. 7/bis, a ben sei anni dalla sua inclusione nel corpus normativo del Codice, è rimasto lettera morta. Ad oggi nessun ramo dell’Ordinamento ha tentato di attuarlo, nonostante ci siano stati tentativi interpretativi e proposte de jure condendo.

Ma v’è di più! La norma è rimasta lettera morta nonostante più volte la Corte Costituzionale abbia ribadito il principio della “primarietà del valore estetico-culturale rispetto ad altri valori, come quello economico” (V. Sentt. n. 151/86, 182 e 183/06), con ciò mettendo i paletti sulle attività che possano in qualche modo pregiudicare il Patrimonio Culturale, soprattutto su quelle attività meramente economiche che – sfruttando i Beni Culturali – possano degradarli e, infine, annientarli sotto la scure del mercato.

Ciò detto e appurato che le “Espressioni di identità culturale e collettiva” di cui alle Convenzioni UNESCO sono da considerarsi Beni Culturali qualora siano rappresentate da testimonianze materiali, andiamo ad analizzare un paio di esempi, giusto per capire di cosa stiamo parlando.

LA MUSICA POPOLARE SALENTINA. Dopo un breve periodo di “folk revival”, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e dopo il fiorire di una letteratura senza paragoni in ordine alla riscoperta delle tradizioni popolari salentine (primi anni 2000), la musica ha incontrato il mercato degli eventi (e non solo degli eventi) e la “riscoperta” è diventata niente più niente meno che un affare fatto di numeri, incassi, tournée.

Dagli anni 2000 ad oggi i gruppi di riproposta si sono moltiplicati. Da poche decine sono diventati più di 200. Sono aumentati gli eventi in cui detti gruppi si esibiscono e il mercato turistico ha fatto impoverire l’immenso panorama dei canti salentini. Il mercato chiede solo ed esclusivamente i ritmi incessanti della pizzica-pizzica e i gruppi propongono solo dette musiche, trascurando gli altri canti della tradizione orale.

La Notte della Taranta è diventato un fenomeno di massa capace di registrare numeri enormi sia di presenze che di incassi. L’evento, che mirava anche alla tutela delle musiche tradizionali, grazie all’Istituto Diego Carpitella, si è trasformato in un evento di massa e l’Istituto è morto con la nascita della Fondazione Notte della Taranta, il cui scopo, nei fatti, è di promuovere la musica popolare salentina (non nella sua interezza, come si può agevolmente vedere nei video del “concertone”) e ottenere ogni anno qualche VIP che canti sul palco.

IL TAMBURELLO.

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Simbolo cardine della musica salentina, il tamburello può essere considerato – in riferimento alle Convenzioni UNESCO sopra citate – un simbolo materiale di espressioni immateriali, dunque meritevole di tutela.

Ma basta girare per il Salento d’estate e vedere una mole sterminata di tamburelli “made in China” fatti di materiali di scarto e venduti nei negozi e sulle bancarelle di ogni sagra, concerto, festival, a prezzi stracciati. Ciò mette in difficoltà le imprese artigiane locali che rischiano di chiudere, impoverendo così il panorama culturale locale, perché “ogni volta che un anziano cantore, un costruttore di strumenti tradizionali o una depositaria delle antiche arti della gastronomia locale muore, è come se bruciasse una biblioteca” (Santoro V., in Rivista Melissi, n° 14 – 15, Besa editrice, Modugno, 2007).

Medesima sorte anche per il resto dell’Artigianato locale, schiacciato dal mercato cinese da cui provengono oggetti d’imitazione, in serie, che mettono in difficoltà gli Artisti e gli Artigiani locali.

Quest’articolo si estende anche a questo settore, posto che l’UNESCO ha incluso nel concetto di Patrimonio Culturale anche le tecniche e i saperi da cui deriva la produzione artigianale (V. articolo su LeggiOggi: “Artigianato, imprenditorialità o bene culturale?”).

Da un lato le espressioni culturali musicali del Salento soffrono di un “eccesso di promozione” e di un’assenza di tutela, dall’altro il simbolo materiale di dette musiche, il tamburello, soffre una concorrenza dettata da leggi di mercato senza ricevere alcuna tutela.

Ma c’è di più! Poiché la pizzica-pizzica sta attraversando un momento felice, la sua diffusione nel resto d’Italia è veloce e capillare. In ogni dove sorgono concerti, festival, tutto nel nome della “pizzica&taranta” (nome infelice ed errato, frutto proprio di una mancanza di tutela e di una cattiva promozione). Questo sistema “omologante” ha effetti deleteri sui Patrimoni altri. Si pensi, a mo’ di esempio, al caso del “Taranta Sicily Fest”, un festival incentrato sulle “musiche del Sud” ma con un forte accento salentino, tanto che il termine “taranta” è parte del titolo, ma non del complesso Patrimonio Culturale siciliano.

La Sicilia, per fortuna, conta un ampio ed articolato Patrimonio Culturale, basti pensare all’opera dei Pupi o alle varie tarantelle siciliane, eppure si sente la necessità di usare “termini altri” ed impropri, ma che fanno breccia nel mercato degli eventi.

 

SE L’ORDINAMENTO NON TUTELA?

In questo quadro sconfortante in cui, di fatto, sono completamente assenti le necessarie politiche di tutela dei Patrimoni Culturali locali, si sta sviluppando una sorta di reazione allergica alla profonda e penetrante intromissione del mercato nella gestione di beni collettivi, dunque appartenenti alla Comunità nel suo insieme e non solo a determinati soggetti (Si V. “Taranta, grande ma a rischio. Come il Salento” in Affari Italiani, http://www.affaritaliani.it/puglia/notte-della-taranta250814.html; Si V. anche il lungimirante contributo di A. Pizzorusso, Diritto della Cultura e principi costituzionali, in Quaderni costituzionali, Vol. II, 2000).

Il punto focale della questione è questo: il Patrimonio Culturale appartiene alle Comunità, non a singoli soggetti. Per esso non si può parlare di “diritto d’autore” né alcuno può rivendicare diritti soggettivi tali da poter usufruire del bene culturale in maniera potestativa.

Astrattamente sarebbe compito delle formazioni sociali (insomma, delle comunità locali) reclamare una tutela fattiva del proprio Patrimonio Culturale, ma tale pretesa incontra ostacoli di diritto che in questa sede si cerca – seppur sommariamente – di affrontare.

 

QUALE INTERESSE ALLA TUTELA?

Com’è noto nel nostro Ordinamento è ampiamente riconosciuto ad un soggetto un legittimo interesse affinché la P.A. eserciti un proprio potere in conformità alla Legge ovvero tenendo conto di distinte situazioni giuridiche soggettive. Il concetto di interesse legittimo, poi, è stato elaborato a tal punto da porre in essere varie forme, tra cui si ricordano l’interesse di fatto, l’interesse collettivo e l’interesse diffuso.

Tenendo conto della materia oggetto della presente analisi, di primo acchito si potrebbe sostenere che l’interesse alla tutela del Patrimonio Culturale immateriale sia configurabile come un interesse diffuso, ossia come un interesse facente capo ad un gruppo giuridicamente non identificabile di persone, ovvero non organizzato e non individuabile autonomamente, che però sia accomunato da un interesse ad un bene della vita condiviso. Detto in altri termini, tutti coloro che hanno a cuore la salvaguardia di un certo bene della vita, siano essi residenti o meno in un dato territorio o facenti parte o meno di una data comunità, sono astrattamente riconosciuti come titolari di un interesse diffuso. Classico esempio è la tutela dell’ambiente.

Tuttavia questa forma di interesse si scontra con l’applicabilità della tutela della finalità perseguita. Non esistono forme proprie di tutela per gli interessi diffusi, posto che non v’è alcuna titolarità né alcun soggetto giuridico in grado di attuare le finalità astrattamente perseguite.

Qualora invece l’interesse riferibile ad una determinata comunità sia caratterizzato dal fatto che questa si sia organizzata in un Ente esponenziale di un gruppo non occasionale, preposto alla tutela dell’interesse perseguito, allora non si parla più di interesse diffuso, ma di interesse collettivo.

In questo caso l’organizzazione (sia essa un’Associazione, una Pro-Loco, una Fondazione, ecc.) si dota di una struttura, uno Statuto, un regolamento e può pretendere che l’interesse diffuso ottenga un riconoscimento giuridico, ancorché in nuce.

Senza dilungarci troppo sull’iter che la Giurisprudenza ha seguito per il riconoscimento di detti interessi in sede giurisdizionale, possiamo sintetizzare in questo modo: in un primo momento era richiesta, in capo all’Ente, la personalità giuridica; successivamente ha richiesto che l’Ente sia stabile dal punto di vista organizzativo e in grado di perseguire le finalità statutarie; poi è stato richiesto un collegamento territoriale tra l’interesse perseguito e l’Ente stesso.

Dunque, sintetizzando ancora, la Giurisprudenza richiede che l’Ente debba avere un’organizzazione funzionale all’interesse perseguito.

Tutto ciò al fine della legittimazione processuale ad agire.

Dal punto di vista, invece, della legittimazione alla partecipazione ai procedimenti amministrativi che coinvolgano gli interessi tutelati, parte della dottrina ha riconosciuto la possibilità che qualsiasi Ente preposto alla tutela degli interessi diffusi (senza alcuno stringente requisito soggettivo) possa prendere parte alla formazione degli atti amministrativi sulla scorta di quanto disposto dall’art. 9 della L. 241/90.

 

CHI PUO’ CHIEDERE LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE?

Stante quanto sopra detto, l’Ordinamento riconosce, seppur astrattamente, l’interesse, dal punto di vista amministrativo, alla tutela del Patrimonio Culturale immateriale da parte di Enti a ciò preposti. A livello locale – mi riferisco al territorio Salentino – vi sono diverse piccole realtà che si occupano di ciò, mentre a livello nazionale si potrebbe far riferimento ad Associazioni più strutturate e significative come AISEA (Associazione Italiana per le Scienze Etnoantropologiche) e SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici), le quali già da tempo si sono preoccupate di definire il campo d’intervento delle tre scienze interessate (Demologia, Etnologia e Antropologia) e di dare una definizione di Patrimonio Culturale Immateriale, in linea – peraltro – con quanto proposto dall’UNESCO in sede internazionale.

Ad ogni modo, qualunque sia il Soggetto interessato alla tutela di siffatto Patrimonio, non può mancare assolutamente la collaborazione con la Scienza antropologica, unica in grado di analizzare i cambiamenti di un Patrimonio immateriale vivo e mutevole.

 

ATTIVITA’ IN GRADO DI INIBIRE, LIMITARE O REGOLARE DETERMINATI ASPETTI INERENTI LA VALORIZZAZIONE, PROMOZIONE E DIFFUSIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE

Non v’è dubbio che un aspetto essenziale dell’interesse diffuso quanto collettivo alla tutela del Patrimonio culturale immateriale inerisce le discipline e attività “che abbiano l’effetto di regolare, limitare, inibire, conformare o anche escludere [determinati] comportamenti dei soggetti che possano compromettere il valore culturale” del bene giuridico in questione (così Aicardi, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, 2002).

In altre parole uno degli aspetti più importanti e delicati della materia riguarda l’interesse di detti soggetti affinché determinati comportamenti possano mettere in rischio la vita stessa del bene giuridico, quali – per tornare agli esempi precedenti – la commercializzazione di prodotti d’imitazione degli elementi materiali culturali (V. tamburello in quanto bene-simbolo) o l’estremizzazione di promozioni di musiche che nulla hanno a che vedere con contesti territoriali estranei (V. l’eccesso di promozione musicale territoriale in territori lontani da quello d’origine).

Del resto F. Lemme sostiene che “separare il bene culturale dalla sua terra d’origine significherebbe condannarlo a vivere un’infelice vita erratica, priva dei suoi significati più profondi” (F. Lemme, La tutela internazionale dei beni culturali e ambientali, in Manuale dei Beni Culturali, Assini-Francalacci (a cura di), Padova, 2000).

Con ciò non si vuole assolutamente sostenere che si debbano vietare concerti e/o festival fuori dal contesto territoriale d’appartenenza, ma che queste attività debbano essere solo successive alle attività di tutela e – sempre e comunque – supportate da elementi in grado di diffondere la conoscenza reale e cogente di ciò che si intende promuovere e non – come avviene – mediante edulcorazioni e falsificazioni concettuali più appetibili nel mercato turistico di massa e nel mercato degli eventi.

Del resto, tornando a quanto più volte stabilito dalla Corte Costituzionale, il valore culturale è primario rispetto al valore economico e quest’ultimo deve sottostare alle regole del primo. Dunque il mercato deve adattarsi alle esigenze di tutela e valorizzazione dei beni culturali, non il contrario.

 

FORME DI RISARCIBILITA’

Infine, e in coerenza con quanto appena detto, non può sottacersi come sia possibile, per detti Enti esponenziali, pretendere forme di risarcimento nei confronti di soggetti che – a vario titolo – si occupano di commercializzazione, promozione e diffusione di pezzi del Patrimonio Culturale come supra detto, ossia con edulcorazioni, falsificazioni e mistificazioni atte esclusivamente a vendere un prodotto culturale. Ma questo è un tema complesso e, forse, sarà trattato in altra e più opportuna sede.

Giovanni D’Elia

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