Dirigenti pubblici: Renzi chiarisca. Politicizzati o manager?

Luigi Oliveri 26/02/14
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Matteo Renzi ha rilanciato il tema della dirigenza “solo a tempo determinato”, già accennato nella sintesi del Jobs Act, anche nel discorso pronunciato al Senato (chiamarlo “programma” appare eccessivo), per ottenere la fiducia.

Segno che il tema, per il nuovo Presidente del consiglio, è particolarmente “caldo”, come del resto testimonia la stampa che prontamente si è accodata ai ragionamenti, senza alcuna chiave problematica o quanto meno critica.

Partiamo subito da un assunto: se l’intento di Renzi è sciogliere il vincolo perverso tra dirigenza di vertice (capi di gabinetto, capi uffici legislativi, segretari generali dei ministeri, capi dipartimento e direttori generali) e magistratura amministrativa, contabile ed anche ordinaria, non si può che concordare.

E’ evidente che i magistrati dispongono di una preparazione giuridica formidabile, astrattamente utile a tradurre idee politiche in progetti normativi (non solo leggi, ma anche regolamenti, circolari, decreti, atti operativi) in modo da essere coerenti con l’ordinamento e non andare incontro ad annullamenti in sede giudiziale o, peggio, cagionare danni civili o erariali.

Tuttavia, ancor più evidente è l’inopportunità della coincidenza tra chi scrive le norme e chi, magari dopo qualche tempo, è chiamato a verificare la loro efficacia, legittimità o produttività di danno. Non è tanto una questione di conflitto di interessi, quanto di evidente ed esecrabile coincidenza tra controllore e controllato, da evitare ad ogni costo.

Dunque, se il problema che vuole affrontare e risolvere Renzi è questo, risolverlo è facilissimo. In primo luogo, mediante comportamenti concludenti: basterebbe ai nuovi ministri e sottosegretari non incaricare negli uffici dirigenziali di vertice alcun magistrato. Sì, perché, contrariamente a quello che fa credere la stampa generalista, non esiste norma alcuna che imponga la presenza dei magistrati in quelle cariche. E’ una semplice facoltà, prevista dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001. Dunque, basta da subito non avvalersene.

In secondo luogo, si può passare ad una norma concreta: un divieto assoluto ed imperituro di attribuire ai magistrati di ogni ordine e grado incarichi dirigenziali. Se il Governo ha necessità di verificare ex ante la legittimità o sostenibilità di norme, da sempre esistono le prime tre sezioni del Consiglio di stato, con funzioni di consulenza giuridica. Basterebbe utilizzarle.

Fin qui, i comportamenti concreti della politica sono stati opposti. Magistrati si incontrano in ogni ministero, nei ruoli di vertice. Non solo: spesso i magistrati hanno assunto ruoli di ministri o sotto segretari (recenti i casi di Patroni Griffi e Catricalà). E, molte volte, la politica ha perfino rinunciato a legiferare, demandando ai magistrati la stessa redazione di norme di legge. Esempi? Il codice dei contratti pubblici (d.lgs 163/2006), una delle norme più farraginose al mondo, che infatti rende impresa ardua assegnare e gestire gli appalti; il testo unico dell’edilizia (dpr 380/2001), altra fonte normativa frastagliata, oscura, fonte solo di contenzioso e complicazioni; il testo unico sull’espropriazione (dpr 327/2001), una norma che, tanto per semplificare, richiede la comunicazione di avvio del procedimento per ben 3 volte nell’arco del procedimento stesso!

Tuttavia, proprio perché attribuire gli incarichi dirigenziali ai magistrati (amministrativi e contabili, in particolare) è solo una facoltà e, ancora, poiché i dirigenti dei vertici (i già citati capi di gabinetto, capi uffici legislativi, segretari generali, capi dipartimento, direttori generali) sono già perfettamente amovibili, nonostante la vulgata politica e mediatica (vedi qui in proposito), appare evidente che Renzi miri a qualcosa d’altro. Perché il problema che pone, la presunta inamovibilità dei dirigenti e/o i magistrati incaricati come dirigenti, in realtà, sono un falso problema, anzi, non costituiscono affatto un problema, come dimostrato sopra.

Allora, per capire, forse è opportuno attestarsi a qualche fatto di cronaca e, in particolare, di cronaca giudiziaria contabile. Ci si riferisce alla sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Toscana 4 aprile 2011, n. 282, che ha condannato Matteo Renzi per danno erariale.

Renzi, ma non solo Renzi. Il fatto, giudizialmente accertato, concerne l’assunzione senza concorso di dipendenti da inserire negli “staff” dell’allora presidente della provincia di Firenze e degli assessori, inquadrati nella Categoria D del comparto regioni autonomie locali, senza che, però, le persone assunte disponessero della laurea, requisito, invece, indispensabile per accedere alla categoria D.

Dicevamo, Renzi, ma non solo: la sentenza ha, infatti, assolto, ma riconoscendo comunque la mancanza da parte sua di indicazioni per evitare l’adozione dei provvedimenti, il segretario generale della provincia, mentre ha condannato il capo di gabinetto del presidente della provincia, il vice segretario generale e dirigente del personale che ha adottato i provvedimenti necessari per la materiale assunzione illegittima.

Esaminiamo i requisiti dei soggetti, a partire dal segretario generale. I segretari comunali e provinciali, per effetto delle riforme Bassanini, che con riferimento agli enti locali si sono cristallizzate nel d.lgs 267/2000, sono soggetti ad un intensissimo spoil system. Sono di nomina strettamente fiduciaria: il loro incarico dipende, mani e piedi, dal sindaco o presidente della provincia.

I segretari comunali da figura di garanzia della legittimità amministrativa negli enti locali, derivante, ante riforma, dalla loro posizione di terzietà, sono passati a diventare longa manus di sindaci e presidente della provincia. Da garanti della legittimità, mediante pareri ed attuazione delle delibere, a silenti trasmettitori del volere politico, al di là dei problemi di legittimità, trasferiti ai dirigenti operativi. E, questo, nonostante recenti tentativi di riproporli come garanti della legittimità e dell’anticorruzione: troppo forte il vincolo con i sindaci, per consentire loro di avanzare osservazioni anche verso le iniziative più illegittime, come quella narrata dalla sentenza della Corte dei conti. Infatti, il segretario provinciale non ha battuto ciglio nei confronti delle decisioni della giunta Renzi.

Il capo di gabinetto nelle amministrazioni locali è una figura non contemplata dall’ordinamento. E’ prevista mediante regolamenti di organizzazione da alcune grandi amministrazioni, con parecchi dubbi di legittimità. Comunque, anche per questo, si tratta di incarichi spesso remunerati oltre i tetti massimi contrattuali retributivi e connessi alla durata, ovviamente del presidente. I capi di gabinetto degli enti locali, dunque, non hanno molto interesse, come i segretari, a “disturbare il manovratore”.

La vice segretaria, incaricata in quel ruolo da Renzi, ha seguito poi il medesimo Renzi al comune di Firenze, quando è stato eletto sindaco.

Ora, appare piuttosto evidente che, al di là delle responsabilità e della conclusione della vicenda giudiziale ancora in corso e, dunque, ribaltabile in secondo grado, la sentenza mette in evidenza un “sistema” ed un rapporto politica-dirigenza che, probabilmente, è quello che davvero il neo premier ha in mente: cioè, una dipendenza fortissima della dirigenza dal politico che la nomina, nonché una assoluta e totale condivisione dei disegni, tale da attuare ogni scelta con atti concreti, senza discutere, senza evidenziare vizi e problemi.

La cosa davvero odiosa della vicenza non è tanto e solo il danno erariale, che potrebbe essere ridotto o negato in secondo grado. Quanto, piuttosto, il fatto che alcune persone siano state assunte, senza concorso, ad un posto che richiede la laurea, ma senza possederla. Dunque, si è messo in piedi il micidiale sistema, tutto italiano, della raccomandazione, del favore opaco a pochi privilegiati, senza permettere ad altri, potenzialmente meritevoli, di mettersi in gioco, misurandosi ad armi pari in un concorso pubblico. Il tutto, non solo per effetto della decisione “politica”, ma anche e soprattutto della compiacenza tacita, ma attiva, della dirigenza.

Eppure, l’articolo 98, comma 1, della Costituzione (che evidentemente si intende “rottamare” al più presto) è chiaro: i pubblici funzionari sono al servizio della Nazione. Cioè, pur essendo vincolati ad eseguire l’indirizzo politico e le direttive disposte dalla politica, debbono comunque perseguire l’interesse generale, non di questa o quella maggioranza, oppure di questa o quella persona.

Nel caso di specie, l’interesse del presidente della provincia e degli assessori di essere assistiti da uno staff poteva tranquillamente conciliarsi con l’interesse generale appunto mediante una prova selettiva concorsuale e, comunque, evitando di beneficiare non laureati di trattamenti economici spettanti a laureati: un insulto alla società di oggi, nella quale anche chi possieda la laurea deve ripiegare quotidianamente su “lavoretti” per nulla attinenti al proprio investimento in formazione.

Questo è quello che succede se i dirigenti, ma comunque l’apparato amministrativo da “servente” si trasforma in “servile”: la disparità di trattamento, la selezione dell’apparato per appartenenza politica, la tendenza a finalizzare le decisioni sulla base dell’appartenenza politica anche del destinatario e del suo voto.

Non poche volte a tanti dirigenti e funzionari sarà capitato di avere davanti un interlocutore, che chiede un appalto, un contributo, una concessione, un beneficio, vantando l’appartenenza allo schieramento politico pro tempore in maggioranza e l’aver fatto campagna elettorale allo scopo.

Non c’è bisogno alcuno di spiegare che questo modo di intendere l’amministrazione pubblica cozza contro qualsiasi regola di corretta convivenza civile, Costituzione o non Costituzione. Significherebbe accettare una vita organizzata per conventicole, corporazioni, fazioni, nell’ambito della quale i diritti si trasformano in concessioni date dal “signore” di volta in volta egemone.

Il rischio di una riforma della dirigenza modellata sull’esempio che emerge dalla sentenza della Corte dei conti della Toscana è esattamente questo.

Per altro, è doveroso notare come Renzi si limiti a considerare, come soluzione al problema della dirigenza “inamovibile” l’apposizione di un termine ai contratti di lavoro e, dunque, l’introduzione del principio simul stabunt simul cadent tra politica e dirigenza, senza, invece, minimamente rifarsi all’esigenza di controllare i risultati e connettere la permanenza nell’incarico alla capacità di conseguirli.

La cosa non è strana, anzi è perfettamente coerente col disegno, nascosto, ma che appare vero: quello, cioè, di conformare una dirigenza “osservante”. La stessa previsione di un termine di durata e la necessaria coincidenza dell’incarico dirigenziale con quello politico, è una spinta:

a)                            a far sì che la dirigenza si politicizzi, agendo per la conferma del consenso della maggioranza che la nomina, in barba all’articolo 98 della Costituzione;

b)                            a rendere la valutazione dei risultati del tutto inutile.

Infatti, il modo per modificare la dirigenza non sarebbe la verifica della capacità di conseguire risultati gestionali, ma solo la conferma continua della “fiducia” da riporre, mediante una serie di “autodafé”, che i dirigenti sarebbero chiamati a declamare. Inutile la valutazione: per liberarsi dei dirigenti, basta aspettare il conseguimento del termine e via con un altro giro di danza.

A chi ritiene che l’idea di Renzi possa avvicinare la gestione della dirigenza pubblica a quella del privato, è semplice opporre pochi ragionamenti. In primo luogo, l’idem sentire, il dirigente quale “alter ego” dell’imprenditore nel privato è un sistema che funziona e deve funzionare, perché il privato persegue fini suoi, e non pubblici. E’ ovvio che il manager deve essere in totale sintonia con l’imprenditore. Come è ovvio che la sola sintonia non basti ed occorrono capacità e risultati.

Nel pubblico, che comunque non è un’azienda e si obbedisce a regole altre (non il profitto, ma il bene comune), si deve perseguire l’interesse generale, con parità di trattamento e trasparenza. Dunque, il dirigente ha il dovere di attuare i programmi che la politica ha diritto e libertà di fissare, ma senza identificarsi con una maggioranza o con un partito. Dovendo, comunque, garantire capacità e risultati esattamente come nel privato.

L’articolo 21 del d.lgs 165/2001 e la contrattazione collettiva, nonché il d.lgs 150/2009 danno modo di valutare l’operato dei dirigenti. In molte amministrazioni si fa, in modo serio. Nello Stato praticamente quasi mai.

La vera “rivoluzione” e “guerra alla burocrazia” si potrebbero fare semplicemente cambiando i comportamenti ed attuando, davvero, le norme che ci sono e che già consentono estrema mobilità degli incarichi e dei ruoli ed una seria e profonda valutazione delle capacità dirigenziali.

Se, al contrario, si afferma che occorre modificare norme le quali sono più che sufficienti a garantire gli obiettivi enunciati, il pericolo, forte, è che si voglia ottenere tutt’altro.

 

 

Luigi Oliveri

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