Napolitano bis, cronaca di una restaurazione e del suicidio Pd

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Con quasi 200 anni di ritardo, anche l’Italia ha conosciuto il suo personalissimo Congresso di Vienna. L’ipotesi più improbabile, per la storia delle istituzioni repubblicane e le ammissioni dirette dello stesso protagonista, è risultata quella risolutiva. Giorgio Napolitano è stato rieletto Capo dello Stato, al termine di una tre giorni convulsa, in cui il quadro politico emerso dalle ultime elezioni è apparso di colpo già invecchiato e dove, probabilmente, si è scritta la parola fine sul più grande partito italiano di questi anni – per iscritti, diffusione territoriale, militanti ed elettori: il Partito democratico.

Partendo con una base di voti di 496 grandi elettori – contando anche Sinistra, Ecologia e Libertà, più i delegati regionali – il Partito democratico è riuscito a mettere in scena il più clamoroso suicidio politico della storia italiana, affossando con le proprie mani due suoi candidati e trovandosi obbligato a implorare il presidente uscente a compiere un ulteriore, estremo sacrificio per uscire dall’impasse istituzionale. Ripercorriamo dunque questi pochi giorni in cui sono cambiati i connotati politici nazionali, con la terza Repubblica che doveva nascere improvvisamente abortita di fronte ai soliti, vecchi schemi.

Mercoledì 17 aprile. A meno 24 ore dal via alle votazioni per il nuovo Capo dello Stato, gli schieramenti cercano i propri favoriti. Il MoVimento 5 Stelle incassa i no di Milena Gabanelli, prima e di Gino Strada, poi, classificati alle prime due posizioni delle Quirinarie. Così, la scelta dei grillini è Stefano Rodotà, che accetta la candidatura. Sul fronte degli altri partiti, si parla di un incontro riservato tra il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e il leader Pdl Silvio Berlusconi. Dai resoconti, Bersani avrebbe proposto al Cavaliere una rosa di tre nomi per il futuro presidente della Repubblica: Giuliano Amato, Franco Marini e Sergio Mattarella. In serata, il Pd riunisce i suoi grandi elettori al teatro Capranica, dove viene annunciata ufficialmente la candidatura di Marini a presidente della Repubblica. L’assemblea, però, non la prende bene: al momento della votazione sul nome dell’ex sindacalista, infatti, sono 220 i favorevoli, 90 i contrari e 30 gli astenuti, più un numero elevato che non ha espresso la propria opinione. Sui social network e in televisione, si susseguono dichiarazioni di esponenti contro il nome di Marini, primo tra tutti Matteo Renzi che, ospite a “Le invasioni barbariche” definisce il candidato come “il passato”. (Guarda il video)

Giovedì 18 aprile. Alle ore 10 è fissata la prima votazione alla Camera, con il Parlamento riunito in seduta comune: per eleggere il nuovo presidente, serve la maggioranza dei due terzi, pari a 672 grandi elettori. La partita è difficile per Marini e, infatti, si conclude con un nulla di fatto: 521 i voti raccolti dall’ex presidente del Senato, contro i 240 di Stefano Rodotà. Dietro, altri pretendenti non superano i 50 voti e fanno più notizia i voti burla espressi da qualche buontempone, che le reali chance di vedere Marini presidente della Repubblica. Dopo il flop di Marini, infatti, il Partito democratico annuncia l’inizio di una fase di riflessione che lo porterà, nel secondo scrutinio del pomeriggio, a votare scheda bianca. Rodotà continua a mantenere i suoi consensi, mentre si fa strada anche il nome dell’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che raccoglie 90 voti. Ma ancora il presidente non c’è.

Venerdì 19 aprile. Di buon mattino, dopo voci di primarie lampo per il Quirinale e altri rumors poco e male controllati, Bersani raduna nuovamente i grandi elettori Pd al teatro Capranica. Nel pomeriggio, infatti, è previsto il quarto scrutinio e lì il quorum per l’elezione del Capo dello Stato passerà alla maggioranza assoluta di 504 voti. E’ il momento di lanciare il nome forte e Bersani avanza la candidatura dell’ex premier – e fondatore Pd – Romano Prodi. La platea si alza in piedi e acclama l’ex presidente della Commissione Ue che sembra, dunque, a un passo dal Colle. In mattinata, si tiene la terza votazione, che finisce come la precedente: una marea di schede bianche e Stefano Rodotà che tocca quota 250 voti. Intanto, la candidatura di Prodi per la quarta chiama, suscita reazioni forti. Grillo, in campagna elettorale in Friuli, giura che nessuno del M5S voterà mai per l’ex premier, mentre fuori da Montecitorio si raduna una folla eterogenea: da una parte, supporters grillini urlano il nome di Rodotà, dall’altra elettori di centrodestra, militanti con affettatrici e mortadella, più qualche bandiera di Casa Pound, si uniscono per osteggiare la candidatura di Prodi. Dentro la Camera, va in scena il defilé di Alessandra Mussolini che indossa una maglietta su scritto: “Il diavolo veste Prodi”. Il Pdl sceglie la linea dura e, insieme alla Lega, decide di non partecipare al quarto scrutinio, coi parlamentari che si mischiano sulla piazza insieme ai manifestanti: evento senza precedenti nella storia dell’elezione del Capo dello Stato. Arriva l’ora della quarta chiama: è il momento della verità. Con Scelta civica che ha presentato Anna Maria Cancellieri, e Rodotà che rimane in pista, è quasi impossibile che Prodi riesca a farcela da subito, dando per scontato qualche franco tiratore in area Pd. La soglia di sopravvivenza della sua candidatura viene fissata a 450 voti, ampio margine, che Prodi, però, mancherà e non di poco. Alla fine, infatti, sono 395 le preferenze ottenute dal fondatore dell’Ulivo, 101 in meno rispetto a quelle assicurate, mentre Rodotà e Cancellieri raccolgono più dei loro bacini di partenza. Siamo all’ecatombe del Partito democratico, che distrugge politicamente il suo padre putativo, il quale, dal Mali, non perde tempo a ritirare la propria candidatura. Nel Pd, intanto, è caos completo: chi ha tramato contro Prodi? I bersaniani accusano Renzi e i popolari delusi per l’affossamento di Marini, il sindaco di Firenze respinge al mittente, anche se su un punto sembrano tutti d’accordo: l’ombra di Massimo D’Alema ha aleggiato pesantemente su Montecitorio in questo pomeriggio convulso. A stretto giro, si dimette prima il presidente Pd Rosy Bindi e, quindi, anche il segretario Pier Luigi Bersani. Nessuna ipotesi che il Partito democratico appoggi l’ex deputato Pci e presidente del primo Pds, Rodotà.

Sabato 20 aprile. Dunque, siamo alla paralisi assoluta. Il Pd è riuscito nell’impresa di bruciare due candidati e suoi fondatori nell’arco di poco più di 24 ore: un record mondiale di masochismo politico. Dall’altra parte, il Pdl non avanza candidature e continua a restare fuori dall’aula anche per la quinta votazione della mattinata. Ancora a prevalere sono le schede bianche, ma le acque sono in movimento proprio al Quirinale, dove, in successione, si presentano Bersani, Berlusconi e Monti: tutti, con il capo cosparso di cenere per implorare Giorgio Napolitano, quasi 88enne, a rendersi disponibile per un altro mandato. Poco prima delle 15, il presidente in carica accetta e, al sesto scrutinio, è il primo presidente della Repubblica a vedersi confermato dal Parlamento, con 738 voti, quasi 200 in più rispetto alla prima elezione, nel 2006, quando Pdl e Lega non lo appoggiarono. Grillo, intanto, inneggia al “colpo di Stato” e chiama a raccolta i suoi sostenitori fuori da Montecitorio, dove si raccoglie una folla colma d’indignazione contro l’ennesimo accordo di palazzo. In serata, però, il leader del M5S rinuncia a presentarsi, e indice una conferenza stampa per l’indomani, dove ammorbidirà le proprie dichiarazioni parlando di un “golpetto furbo”.

 

Francesco Maltoni

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