Grillo, la rappresentanza parlamentare e il vincolo di mandato

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Dopo aver richiamato il concetto di circonvenzione di incapace, il leader del Movimento 5 stelle introduce il concetto di “circonvenzione di elettore”.

Egli scrive: “Il voto è un contratto tra elettore ed eletto ed è più importante di un contratto commerciale, riguarda infatti la gestione dello Stato. Se chi disattende un contratto commerciale può essere denunciato, chi ignora un contratto elettorale non rischia nulla, anzi di solito ci guadagna. E’ ritenuto del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma. Insomma, dopo il voto il cittadino può essere gabbato a termini di Costituzione. L’art. 67 della Costituzione della Repubblica italiana recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Questo consente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno. Per cinque anni il parlamentare vive così in un Eden, in un mondo a parte senza obblighi, senza vincoli, senza dover rispettare gli impegni, impegni del resto liberamente sottoscritti per farsi votare, nessuno lo ha costretto con una pistola alla tempia a farsi inserire nelle liste elettorali. La circonvenzione di elettore è così praticata da essere diventata scontata, legittima, la norma. Non dà più scandalo. Viene concesso al parlamentare libertà preventiva di menzogna, può mentire al suo elettore, al suo datore di lavoro, senza alcuna conseguenza invece di essere perseguito penalmente e cacciato a calci dalla Camera e dal Senato”.

Ma le cose stanno proprio così?

L’ art. 67 della Costituzione recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Si tratta di un principio comune alla quasi totalità delle democrazie rappresentative che trova le sue radici nella Rivoluzione Francese e nella Costituzione del 1791: “I rappresentanti eletti nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma della nazione intera, e non potrà essere conferito loro alcun mandato”.

Analogo principio venne introdotto nello Statuto Albertino: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”.

In Assemblea Costituente la questione fu dibattuta.

Il relatore Mortati sottolineava come “Sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme.” E il Presidente Terracini notava che: “qualsiasi disposizione, inserita nella Costituzione, non varrebbe a rallentare i legami tra l’eletto ed il partito che esso rappresenta o tra l’eletto e il comitato sorto per sostenere la sua candidatura”. Gli interventi in Assemblea sottolineavano l’importanza della “rappresentanza della Nazione”, fino a giungere alla condivisione del testo dell’art. 67.

Dal principio di rappresentanza così inteso discese naturalmente l’assenza di vincolo di mandato. La norma sancisce il divieto del mandato imperativo, per il quale il parlamentare non può accettare alcuna istruzione o direttiva circa l’esercizio delle sue funzioni, e ciò a tutela della sua indipendenza da qualsiasi potere politico, economico o sociale. Ne consegue che ciascun parlamentare, nello svolgimento della sua attività, può agire liberamente, non sussistendo alcun mezzo giuridico per costringerlo al rispetto di eventuali accordi o per chiamarlo in giudizio a rispondere del modo in cui ha esercitato il proprio mandato.

La Corte Costituzionale, nella sentenza 14/1964, ha avuto modo di precisare: “L’art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.

Il divieto di mandato imperativo rappresenta una caratteristica essenziale in una democrazia parlamentare.  E non si può certo metterne in discussione l’essenza per il distorto uso che se ne è fatto soprattutto negli ultimi anni. L’art. 67 della Costituzione, come si è visto, non è stato introdotto per legittimare il passaggio da un gruppo parlamentare ad un altro, ma per garantire la libertà di opinione al singolo parlamentare, non svincolato completamente da rappresentanza e responsabilità.

Quando un parlamentare dissente da una proposta di legge o emendamenti presentato dal suo partito o da altri può votare secondo coscienza senza che questo comporti il cambiamento di partito o le dimissioni.

Il rischio di un tradimento a un ideale politico, a un programma, è vero che esiste sempre, all’interno del Parlamento, ma se un partito o movimento seleziona bene i propri candidati, e se questi sono persone oneste, i ribaltoni non si verificheranno.

Secondo l’opinione di Grillo, il parlamentare che si discosta dalle direttive del partito o movimento nel quale è stato eletto dovrebbe “essere perseguito penalmente e cacciato a calci dalla Camera e dal Senato”.

Cacciato da chi?

Se viene meno il dovere di rappresentanza, dovrebbero essere gli elettori, in quanto mandanti, gli unico ad avere la legittimazione di “cacciare” il parlamentare. Ma la nostra Costituzione – come le altre – non prevede la revocabilità del mandato da parte degli elettori. E allora dovrebbero essere i dirigenti del partito o del movimento di appartenenza.

Con quali garanzie democratiche? A quale titolo? Con quale mandato? E se il leader non è stato democraticamente individuato, non vi sono regole democratiche chiare all’interno del partito o movimento, è possibile ritenere che il leader possa imporre scelte ai Parlamentari espressi dal voto popolare e rappresentanti della Nazione?

Il problema è ancora più grave se si considera la mancata attuazione dell’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Manca ancora una legge sui partiti.

I Padri Costituenti avevano ben chiaro il ruolo fondamentale dei partiti, quali libere associazioni dei cittadini allo scopo di concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale. Da questa disposizione discendono quattro principi soprattutto:

1. La formazione dei partiti è libera: ogni partito ha diritto di cittadinanza nello Stato italiano qualunque ne sia l’ideologia. L’unico limite a tale libertà, scritto nell’art. XII delle disposizioni transitorie della Costituzione, è la riorganizzazione del partito fascista.

2. La repubblica si fonda sul pluralismo dei partiti. L’uso del plurale (“partiti”) nell’art. 49 della Costituzione implica che sarebbe inammissibile un regime a partito unico. I limiti alla fondazione e all’attività dei partiti possono essere soltanto quelli previsti per le associazioni in generale stabiliti dagli articoli 17 e 18 della Costituzione: le riunioni devono essere pacifiche e senza armi; le finalità associative non devono essere vietate dalla legge penale; sono vietate le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

3. Ai partiti è riconosciuta la funzione di determinare la politica nazionale, in concorrenza tra di loro.

4. I partiti devono rispettare il metodo democratico. L’espressione «metodo democratico» definisce il principio per cui la minoranza deve rispettare le decisioni della maggioranza, ma ha la piena libertà di agire, con tutti i mezzi pacifici a sua disposizione, per diventare a sua volta maggioranza e assumere la guida del paese. È proprio del metodo democratico la possibilità dell’alternanza pacifica al potere tra maggioranza e minoranza.

Se il modello costituzionale sopra descritto fosse concretamente attuato e praticato noi ci troveremmo in una situazione tale per cui il libero confronto di idee e iniziative in condizioni di parità fra tutti i cittadini porterebbe realmente ad un “libero concorso” di tutti i cittadini nella formazione delle scelte politiche della Repubblica in tutte le sue diverse articolazioni istituzionali nelle quali si esercitano i tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario.

Sembra lecito pensare pertanto che un corretto funzionamento di questo “modello” di democrazia, sia in grado di produrre necessariamente una selezione sia dei gruppi dirigenti dei partiti sia dei componenti degli organi costituzionali, tale da assicurare, nel tempo, il prevalere delle idee e delle risorse umane più idonee alla soluzione dei problemi della società e comunque capace di garantire al popolo di procedere al ricambio, per via democratica e pacifica, dei gruppi dirigenti sia dei partiti che dello Stato.

E’ da verificare se può nascere davvero una nuova fase nella vita della Repubblica, con forze nuove, con la nuova generazione che si assume la responsabilità di scegliere e di decidere, senza cadere vittima di quel leaderismo che, seppure sotto forme diverse, ha determinato enormi guasti nel nostro Paese.

I primi segnali non sono incoraggianti.

Il deficit di democrazia e di rappresentanza non si risolve certo ricercando leader carismatici, con il potere di decidere linea politica e decisioni e con la possibilità di “cacciare” dal Parlamento chi dissente. Quanto accaduto negli ultimi anni non è effetto della Costituzione, ma di una pessima legge elettorale che ha attributo al leader di partito di “nominare” i parlamentari.

Tale potere ha condizionato a tal punto la libertà del parlamentare che – nella prospettiva della nuova candidatura – ci ha condotto alla degenerazione della rappresentanza democratica. Emblematico il voto sulla nipote di Mubarak.

La soluzione dunque non è quella prospettata da Grillo.

Se tutti i parlamentari devono attenersi alle direttive del movimento di appartenenza – pena la cacciata dal Parlamento – a cosa servono le assemblee parlamentari. Estremizzando, sarebbero sufficienti i leader di partito che votano pro quota e non ci sarebbero più ribaltoni. Guai a cercare di rimediare alla crisi della politica con rimedi peggiori del male.

 

Carlo Rapicavoli

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