Pubblicità dello studio legale, una sentenza nostalgica

Paola Parigi 16/11/12
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Nel 2009 alcuni avvocati lombardi hanno acquistato uno spazio pubblicitario (box), sul quotidiano free-press City, all’epoca distribuito a Milano e dintorni e purtroppo definitivamente chiuso lo scorso febbraio. Non è stato possibile trovare copia di questo “box” pubblicitario, quindi il commento si concentra sugli argomenti utilizzati dalla Corte e non sulla bontà “tecnica” del messaggio pubblicitario e quindi sulla sua effettiva efficacia e qualità.

Questa inserzione pubblicitaria è stata sanzionata pesantemente in primo grado dall’Ordine degli Avvocati di Monza (sospensione di 2 mesi per tutti gli incolpati), per violazione degli artt. 17 bis e 19 del Codice deontologico forense. Secondo il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Monza, gli avvocati incolpati avevano infatti: «diretto comunicazioni ed informazioni sulla propria attività professionale, utilizzando in modo improprio mezzi consentiti e comunque in modo incompleto rispetto alle indicazioni obbligatorie, con contenuto, forma e modalità irrispettose della dignità e decoro della professione, con locuzioni integranti messaggio pubblicitario e promozionale ad ampia divulgazione con la pubblicazione di un box pubblicitario».

Il Consiglio Nazionale Forense, adito in secondo grado, ha attenuato la sanzione sostituendola con l’avvertimento, confermando però che: «sussistesse l’illecito disciplinare, poiché il messaggio pubblicitario inserito nel box era connotato da slogan sull’attività svolta dal ricorrente, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico e contenente dati equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo, per cui il messaggio integrava modalità attrattiva della clientela con mezzi suggestivi ed incompatibili con la dignità ed il decoro professionale, per la marcata natura commerciale dell’informativa sui costi molto bassi».

Lo scorso 13 novembre 2012 la Cassazione a  Sezione Unite si è espressa sul ricorso confermando sostanzialmente le violazioni contestate e pronunciandosi sulla competenza territoriale.

La Corte si è rifatta al dettato della norma di Legge professionale del 1933 (art. 38 R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578), sostenendo che la mancata  tipizzazione dell’illecito, cioè l’inesistenza di indicazioni concrete su quanto sia corretto e quanto invece sia vietato nel comportamento dell’avvocato, autorizza a ricomprendere estensivamente numerosi comportamenti, al «fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare».

Questa formulazione “aperta” impedisce pertanto alla Cassazione un vero e proprio giudizio sulla corretta (o meno) applicazione della norma di legge, poiché l’intenzione del legislatore era proprio quella di affidarsi al libero apprezzamento del giudice di prime cure, che non può essere fatto oggetto di sindacato di legittimità da parte della Corte.

«Poiché non è illegittimo per l’organo professionale procedente individuare una forma di illecito disciplinare (non certamente nella pubblicità in sé perfettamente legittima nel suo aspetto informativo ma), nelle modalità e nel contenuto della pubblicità stessa, in quanto lesivi del decoro e della dignità della professione e non nell’attività dì acquisizione di clientela in sé, ma negli strumenti usati, allorché essi siano non conformi alla correttezza ed al decoro professionale. Non vi è, quindi, nel caso in esame irragionevolezza nel precetto deontologico individuato dall’organo professionale, quale fattispecie sanzionabile in sede disciplinare».

A nulla è valso che i ricorrenti richiamassero la Legge Bersani (D.Lgs. n. 40 del 2006), né la più recente norma introdotta con l’art. 4 del D.P.R. n. 137 del 3 agosto 2012, cosiddetto Decreto Liberalizzazioni, perché quest’ultimo intervenuto successivamente ai fatti e anch’esso formulato in tal modo da consentire un’interpretazione discrezionale dei valori di dignità e decoro della professione potenzialmente violati da una pubblicità da parte di avvocati.

Questa sentenza, purtroppo, si iscrive nell’alveo della più retriva di queste interpretazioni e consente di porre nel nulla i tentativi (troppo timidi) di liberalizzazione e priva, ancora una volta, la categoria professionale forense di una opportunità, quella di comunicare con il proprio pubblico o mercato secondo le cifre della pubblicità, bella o brutta che essa sia.

È amaro constatare come la formulazione del decreto che velleitariamente si è chiamato “Liberalizzazioni”, sia così acconcia alla clausola generale di epoca fascista e non ne abbia mutato né sostanzialmente né formalmente il senso.

La discrezionalità interpretativa dei Consigli dell’Ordine territoriali su ogni singolo messaggio pubblicitario cade come una scure su quello che è il principio vantato di “libertà” di comunicazione e pubblicità e che, come già si è avuto modo di notare commentando a caldo la norma, tale non è.

La prima ipocrisia sta nella formulazione stessa della norma (che in nulla ha modificato la previsione dell’art. 17 del Codice Deontologico Forense), la quale parla di “pubblicità informativa”.

L’introduzione del solo aggettivo rende l’espressione un ossimoro, un non senso.

La pubblicità e l’informazione sono due attività completamente diverse, per finalità, strumenti e linguaggio.

La pubblicità è promozione e deve necessariamente servirsi di suggestione, potenza evocativa e simbolica di grafica, linguaggio e formulazione. Se così non fosse, sarebbe privata dei suoi elementi costitutivi e svuotata di ogni più elementare significato.

Pare che si tratti ancora una volta di una occasione persa per avvicinarsi alla libertà di cui godono, ad esempio, gli avvocati degli Stati Uniti che sin dal 1977 si sono visti riconoscere il diritto inviolabile, costituzionalmente garantito, di comunicare qualsiasi informazione e con qualsiasi mezzo a proposito della propria attività.

Questa battaglia condotta a fil di lama, sulla pelle di professionisti che tentano solamente (e magari artigianalmente), di farsi conoscere e apprezzare dai propri potenziali clienti, non coglie l’elemento principale sul quale si basa il successo del messaggio pubblicitario e che, da solo, è in grado di decretarne fortuna o sfortuna, ovvero la sua “bontà”.

Una brutta pubblicità ha l’effetto negativo di un boomerang e una buona pubblicità, non supportata da fatti concreti che ne realizzano la promessa, si rivolge, con altrettanta virulenza contro chi la utilizza.

La battaglia tra la visione “tradizionale” (ma forse possiamo osare di definirla “nostalgica”, visto che tiene come suoi i principi e i metodi del ’33 ), e una visione moderna della professione non dovrebbe essere condotta a suon di sentenze, ma piuttosto, con l’arma della moderna dialettica e del confronto tra modelli diversi che possono coesistere proprio in quanto si rivolgono a mercati diversi.

Questa lotta intestina, fratricida, non andrebbe combattuta e vinta nelle aule, ma sul mercato, non più protezionistico e blindato, ma finalmente aperto e rivolto veramente all’interesse del destinatario finale del lavoro dell’avvocato: il cittadino.

Paola Parigi

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