O la corsa o la vita: Andrea Antonelli è una morte di cui tutti sono colpevoli

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“Chi corre in moto lo sa. Fa parte dei rischi del mestiere”. Quante volte l’abbiamo sentito? Quante ancora lo sentiremo, dopo un’incidente mortale che disintegra una vita sull’altare del “show must go on” ad ogni costo, perché la gente paga il biglietto e gli sponsor pagano il circo?

Andrea Antonelli se n’è andato una domenica mattina qualsiasi, in una corsa qualsiasi, a 25 anni, sotto un diluvio universale che ha provocato – senz’ombra di dubbio – l’incidente che gli è costato la vita. Ora si cercano i responsabili, si parla di omicidio doloso, di gara che non doveva essere corsa. La realtà qual è?

Forse non è solo questione di MotoGp o Superbike come ha osservato Max Biaggi (“una gara del genere in MotoGp non si sarebbe mai corsa”: sicuri? Non ricordate mai derapate e altre deviazioni con piogge torrenziali anche in MotoGp? Io si…), ma semplicemente di opportunità.

Ragionando a livello esclusivamente statistico-commerciale, l’opportunità di fermare una corsa a rischio è minore di quella di farla proseguire, anche a costo – ma il rischio aumenta, ovviamente, all’aumentare di certe condizioni atmosferiche negative – di un incidente potenzialmente mortale. Chi lo nega non solo è ipocrita ma nega anche l’essenza di ogni sport che abbia un 1% di possibilità di incidente letale, sia esso automobilismo, motociclismo, ciclismo.

Ecco dove sta il paradosso: la morte che ogni secondo può colpire questi ragazzi lanciati ai 250 all’ora su cavalli d’argento da 3 quintali che, di colpo, diventano bare troppo pesanti per chi è solo parte dell’ingranaggio, deve finire di essere la principale attrattiva di una specialità, il motociclismo, che di per se presenta già un rischio altissimo e per certi versi calcolati.

Prendiamo la corsa incriminata, il circuito di Mosca, la pioggia incessante e l’asfalto non drenante, qualcosa di allucinante (o allucinogeno?) al sol pensiero: più che una strada e una corsa di moto, eravamo in piscina con delle moto d’acqua solo che al posto dell’acqua c’erano asfalto e pericolose via di fuga senza protezioni.

«Oggi qui non si doveva correre» ha detto Marco Melandri dopo la tragedia, aggiungendo che «la gara non si doveva svolgere, in pista non si vedeva nulla e dovevamo fermarci». Punto primo: perché si è corso allora? Punto secondo: la responsabilità individuale, talvolta, non può salvare la vita?

No, se in ballo c’è il sindacato dei motociclisti che dice “o tutti o nessuno”. O tutti o nessuno cosa? O si muore tutti o non si muore nessuno? Ma dove siamo, al Gardaland dell’Inferno? Alla roulette russa dell’era dei social network? Non si può assolutamente pretendere dai piloti di rischiare il proprio futuro con “pretese sindacali”, che solo i big possono permettersi senza patimento alcuno. E se lo sponsor non paga, pazienza. Questa storia de “o la corsa o la vita” deve finire.

Problema numero due: chi decide cosa. In Superbike pare non esista una sorta di Commissione di Vigilanza atta a determinare se una tal gara debba oppure no essere annullata e/o sospesa, il che già di per se porta a rabbrividire. Come dire: lancio una monetina ma non ho un tavolo, se la ritrovo bene se no ne lancerò un’altra.

Nel caso di Antonelli, gli organizzatori si sono difesi sostenendo che “la pista di Mosca non avrebbe l’asfalto drenante perché con le infiltrazioni dell’acqua e l’abbassarsi delle temperature in Russia si creperebbe l’intero manto stradale”. E allora? “La scelta degli organizzatori dell’evento e dei gestori dell’impianto di volere, comunque, che i piloti scendessero in pista per disputare la gara, pur prevedendo e accettando il rischio e la probabilità del verificarsi della tragedia poi verificatasi, lasciano emergere forti responsabilità”, sostiene il Codacons che ha inoltrato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma accusando gli organizzatori della corsa di omicidio con dolo.

La Procura deve accertare quindi se vi siano responsabilità da parte degli organizzatori che abbiano in qualche modo contribuito a determinare la morte del pilota”. Carmelo Ezpeleta, responsabile di Dorna, ribadisce che “l’ultima sensazione di quella che è la pista arriva dai piloti dopo il giro di ricognizione. E dopo quello Supersport, nessuno ha alzato il braccio o ha fatto capire che era pericoloso correre”.

Marco Melandri lo aveva fatto a fine gara-1 ma nessuno lo ha preso in considerazione. E qui la Dorna ha qualche responsabilità perché la gara incriminata è partita qualche minuto dopo. Se qualcuno avesse ripetuto il gesto del ravennate la gara sarebbe partita lo stesso? Non basta una mano, ne servono due, tre, quattro. Quante?

La fatalità che ha ucciso Andrea Antonelli, un ragazzo di 25 anni con una vita davanti e l’opportunità di scrivere qualcosa che va aldilà di una derapata a 200 all’ora in mezzo all’acqua, riguarda la scelta errata del tipo di asfalto non drenante su quella pista, con quelle temperature. Ci sono precise responsabilità, che dovrebbero essere accertate dalla magistratura russa (non da quella italiana…), ma che probabilmente, per i motivi commerciali e di opportunità di cui sopra, sarà dura che emergano in tempi relativamente brevi.

Intanto il circo continua, ogni giorno c’è una news in meno su Antonelli, e la prossima gara è dietro l’angolo. La corsa non vale una vita, la colpa è di tutti e per questo è così facile che si pensi non sia di nessuno.

Matteo Peppucci

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