Niente Jobs Act per gli statali. E la riforma PA può attendere

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Nei mesi scorsi se ne era avuto il sentore. Ora, finalmente, il governo ha scoperto le carte, tramite lo stesso ministro della Funzione Pubblica Marianna Madia, per un’affermazione che vale come una sentenza (o un regalo, a seconda dal punto di osservazione). Il Jobs Act non vale – e non varrà – per i lavoratori pubblici. 

Ecco come dare un annuncio scomodo, potenzialmente in grado di surriscaldare il clima, con esiti difficilmente prevedibili: lo si dà quando, ormai, i buoi sono tutti scappati.

Così è avvenuto con la riforma del lavoro in riferimento alla pubblica amministrazione. Ormai, infatti, dire che non vale per i dipendenti pubblici, sul fronte dei risultati politici del governo, è ininfluente: il decreto di riforma del mercato del lavoro, con la nuova disposizione del contratto a tutele crescenti e soprattutto, i termini del licenziamento radicalmente modificati, è in cassaforte.

Il decreto attuativo del Jobs Act è infatti stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale venerdì 6 marzo ed è diventato operativo a partire da subito.

Così, ora il ministro Madia ha potuto rompere il silenzio di mesi, intervallato da domande mai pienamente risposte e mezze verità, sul pubblico impiego: chi ha un contratto con un ente locale, centrale o comunque della galassia amministrativa, non dovrà preoccuparsi degli effetti del Jobs Act.

In pratica, non dovrà temere di essere licenziato indebitamente da un giorno all’altro, senza giusta causa, per un capriccio del proprio datore di lavoro, o semplicemente per un errore. Ancora, i termini per allontanare dal lavoro eventuali posizioni superflue resteranno esattamente gli stessi, e dunque l’immediatezza prevista dal Jobs Act per le aziende private resterà un miraggio. Il che, in tempo di spending review, avrebbe potuto fungere, dal lato delle casse pubbliche, come un possibile espediente di contenimento dei costi e, dall’altro, un pungolo per il lavoratore.

Perché la nuova legge non dovrebbe valere per il pubblico impiego? Così come in azienda, infatti, il lavoratore ha interesse che i conti siano in salute per preservare il proprio posto di lavoro, così, a maggior ragione, dovrebbe accadere anche sul fronte del pubblico impiego, con l’ulteriore impulso a fornire un migliore servizio alla collettività e, al contempo, favorire un minore esborso di risorse appartenenti a tutti.

Invece, garantisce il ministro Madia, così non sarà: nel pubblico impiego resterà il reintegro in caso di licenziamento ingiustificato, esattamente come accadeva, fino a due settimane fa, con i lavoratori del privato. “Non è un favoritismo – ha affermato in un’intervista rilasciata a Repubblica  ma il lavoro pubblico è diverso: chi licenzia non è un imprenditore che decide con le proprie risorse”.

Il primo a sollevare la questione, non appena il Parlamento ha detto sì alla legge delega sul Jobs Act, era stato il giurista Pietro Ichino, che aveva apertamente accusato il governo di aver eliminato ad arte l’allargamento agli uffici pubblici. Affermazione a cui aveva frettolosamente risposto il premier Renzi“La questione verrà affrontata nel corso del dibattito sulla riforma della pubblica amministrazione”,  di cui le Camere stanno esaminando il ddl in questi giorni, ma senza affannarsi troppo.

Quindi, nel corso dei due mesi intercorsi alla pubblicazione in Gazzetta, il tema dell’allargamento al pubblico impiego non è stato discusso nelle varie commissioni che si sono occupate di Jobs Act. L’unico impasse, in quella fase, è infatti avvenuto sui licenziamenti collettivi, che, alla fine, sono rientrati tra le materie del decreto attuativo.

Insomma, il Jobs Act vale soltanto per pochi – e sfortunati – eletti: i nuovi assunti – dunque, in gran parte giovani e under 40 alle prese da anni con rapporti a termine – ed esclusivamente del settore privato. Un raggio così limitato non può che allargare crepe, accentuare le diseguaglianze e sprigionare un diffuso malessere sociale e generazionale, mentre la spesa sociale resta – e resterà ancora a lungo – un fardello insostenibile.

“Lo stesso obiettivo – ha aggiunto Marianna Madia, parlando di razionalizzazione nel pubblico impiego – si può raggiungere in altro modo. Già oggi c’è la messa in mobilità che può portare al licenziamento. Renderemo più semplici i procedimenti disciplinari, quelli per scarso rendimento”. Ma nel frattempo, le cure dimagranti dei vari governi hanno prodotto risultati assai poco incoraggianti, generando, spesso, situazioni dall’effetto inverso a quello sperato. E’ il caso dell’odissea che attende i lavoratori delle Province, che andranno ricollocati, con l’eventuale precedenza nel caso di selezioni di personale da parte di altri enti, o, ancora, dell’ulteriore rinvio della conversione dei contratti precari della PA. Non certo lo sfondo migliore su cui costruire una riforma che vuole dirsi epocale per il pubblico impiego e, soprattutto, le tasche dei cittadini.

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Francesco Maltoni

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