Mediazione, dopo la decisione della Consulta, quali proposte per la Giustizia?

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Nel tourbillon dei commenti che hanno fatto seguito alla decisione della Consulta sull’incostituzionalità della mediazione obbligatoria, mi sembra che vi sia un profilo che è stato tralasciato da molti.

Ne ha parlato, seppur per sommi capi, Oscar Giannino. Non a caso, un economista e non un giurista.

Il tema è quello dei riflessi economici della decisione. L’incidenza extragiuridica delle sentenze dei giudici è un argomento esplorato da tempo dalla dottrina americana, ma che, evidentemente, sembra non interessare i giuristi italiani.

Eppure, a parere di chi scrive, una maggiore attenzione sarebbe forse auspicabile. Sia chiaro: non è mia intenzione entrare nel merito della decisione, al momento non ancora pubblicata e nota solo attraverso uno scarno e lapidario comunicato stampa.

Né, tanto meno, chiedere alla giurisprudenza, di qualsiasi ordine e grado, ciò che la giurisprudenza non può dare. I giudici non conoscono (e, forse, non devono conoscere) i compromessi della politica, né, probabilmente, gli interessi economici dei destinatari delle loro decisioni. I giudici, senza necessariamente relegarli nel circoscritto ruolo di bouches de la loi, non possono essere chiamati a prendere posizione tenendo conto dell’impatto che, a livello economico, potranno determinare. Quanto detto vale per tutti i giudici, ma, probabilmente, vale a maggior ragione per i giudici della Corte costituzionale, inevitabilmente soggetti ad un rigoroso, e doveroso, formalismo.

Il problema, però, c’è e, a prescindere dall’appartenenza ad una fazione o all’altra della barricata (pro o contro la mediazione), deve essere discusso.

Esistono circa 700 organismi accreditati presso il Ministero. Nel corso degli anni, si sono abilitati otre 60.000 mediatori.

Potremmo discutere a lungo sulla facilità con cui sono stati concessi tali titoli, così come sulla forse eccessiva apertura al proliferare di organismi di mediazione. Ma, in tutta franchezza, non ce ne si può lavare le mani.

Gli organismi, in specie quelli privati, hanno sostenuto degli sforzi economici importanti. Analogamente, migliaia di professionisti – la maggior parte dei quali avvocati o praticanti – hanno deciso di investire tempo e denaro e seguire i corsi.

Investimenti e sforzi che sono stati incoraggiati, avallati e permessi da una precisa scelta legislativa: quella di trovare una soluzione, o almeno un palliativo, alla lentezza cronica dei nostri tribunali e alla durata eccessiva (e più e più volte sanzionata dalla CEDU) dei nostri processi.

Un problema che oggi, tra le voci di tripudio della classe forense (o, quanto meno, di molti di coloro che la rappresentano), sembra essere stato dimenticato.

Mi occupo di ADR da anni, ho seguito con attenzione le proteste delle associazioni degli avvocati e, pur trovando alcune obiezioni condivisibili, non ho ancora capito perché non sia stata proposta da nessuno una strada differente.

Mi spiego meglio. Quello delle lungaggini processuali è un problema noto, un cancro che affligge da decenni la giustizia italiana. Però non si sentono proposte, alternative, soluzioni. Nulla.

All’improvviso, per magia, il problema della giustizia italiana (e della classe forense in particolare) è divenuta la mediazione.

E cosa dire della dignità della classe forense? Cosa ci sarebbe di così poco dignitosi nel presentarsi dinanzi ad un mediatore non laureato in giurisprudenza? Lo fanno (quasi) tutti in Europa e, guarda caso, proprio nell’Europa che spesso additiamo come la migliore. Non in Grecia, in Portogallo. No, lo si fa in Svezia, in Germania, in Inghilterra. E nessuno si sente leso nella propria dignità.

Una dignità che, evidentemente, dimentichiamo di avere quando entriamo nelle aule di giustizia (che, volutamente, scrivo in minuscolo), quando usiamo i peggiori stratagemmi per accaparrare clienti, quando ci facciamo bistrattare da tutti gli altri operatori della giustizia (ancora una volta, e ancora volutamente, in minuscolo). Quando consentiamo agli albi professionali di ingigantirsi, ignorando l’urgenza di una selezione seria all’ingresso. Quando non ci indigniamo per la mancanza di una reale concorrenza nella nostra categoria, per i favoritismi spesso consentiti e sostenuti dai consigli dell’ordine (sempre in minuscolo). Quando tolleriamo che tanti giovani professionisti siano alla fame e, anche per questa ragione, spinti verso la lusinga di nuove professionalità (come la mediazione).

Nessuno, tra coloro che protestano, sente il dovere di fare un esame di coscienza e domandarsi cosa ha spinto, per disperazione e per tentativo di riscatto, tutti questi giovani verso una nuova professione, snobbata dagli avvocati più anziani, nella quale si sono riversati molti di quei neolaureati o neo avvocati che non riescono a sfondare le barriere create dalle precedenti generazioni?

L’indignazione è solo per la mediazione.

Però basterebbe guardare i numeri e rendersi conto che la mediazione ha ridotto, seppur di poco, il numero delle cause pendenti. Numeri forse inferiori alle aspettative, ma qualcosa in più del nulla.

Peccano, onestamente, quelli che ritenevano che la mediazione potesse essere la panacea di un sistema in crisi.

Ciò, evidentemente, non avrebbe mai potuto essere possibile per almeno due ragioni.

La prima è che una riforma seria della Giustizia (in maiuscolo, questa volta) passa per un progetto globale e non può essere il frutto di un intervento episodico ed occasionale come una legge.

In secondo luogo, le innovazioni legislative hanno bisogno di tempo per penetrare nel tessuto sociale, essere accettate dai cittadini. Si sarebbe dovuto dare il tempo a questi ultimi di comprendere i vantaggi della mediazione e gli svantaggi di (alcune) liti giudiziali e poi valutare, sul lungo periodo, la bontà della soluzione adottata.

I numeri degli accordi raggiunti in mediazione tendevano a salire. Forse un’occasione – per migliorare il sistema giustizia, non certo per risolverne tutti i problemi – avrebbe dovuto essere concessa alla nuova legge.

Torniamo, però, al punto di partenza. Cosa si fa adesso? Proviamo a risolvere il problema, con pacatezza, scartando posizioni precostituite, magari migliorando la legge esistente, oppure continuiamo un inutile braccio di ferro?

Confidiamo nell’intervento delle lobby (banche, assicurazioni, ecc.) oppure speriamo in un decreto legge che, come nel gioco dell’oca, ci riporti al punto di partenza?

Nel frattempo, cessate le proteste, io continuo ad aspettare qualche valida alternativa dai colleghi avvocati per risolvere il problema delle lungaggini processuali e per ridurre l’ingolfamento dei nostri tribunali.

Giovanni Maria Riccio

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