Marivan, Iran:abiti da donna sinonimo di disonore? Le proteste su Fb

Letizia Pieri 13/05/13
In un’epoca in cui quasi tutti i meandri occidentali rivendicano con forza il raggiungimento della parità tra i generi, resistono ancora parti di mondo in cui la figura femminile è ancora del tutto bistrattata. Talmente poco considerata è la donna in questi angoli oscuri di società che l’abbigliamento femmineo può essere tuttora accostato a sinonimo di oltraggio e disonore. Tra le fila di chi si arroga il declassato diritto di screditare l’insondabile principio che sancisce l’uguaglianza tra i sessi si annovera il Marivan, capitale dell’omonima provincia kurda dell’Iran, comprensiva di 92 mila anime condensate tra il lago Zarivar e il confinante Iraq. Proprio in territorio kurdo, infatti, circa un mese fa, è stata resa nota la condanna emanata da un tribunale locale nei confronti di un uomo, imputato per “turbamento dell’ordine pubblico”, forzato ad una pena alquanto singolare.

L’uomo si è visto costretto ad indossare le tipiche, tradizionali vesti femminili, obbligato, ammanettato ed abbigliato in tal modo, a girare per intero la città rimanendo in piedi ed immobile sul retro di un pick up Toyota. La motivazione presentata dai giudici rispondeva all’obiettivo di ridicolizzare pubblicamente il reo, 25enne di nome Tawfik Dabash, onde rieducarne “lo spirito ribelle” e parallelamente scoraggiare gli altri potenziali “criminali”. La peculiare condanna non rappresenta il primo esempio, su questa linea, decretato dai funzionari di riguardo iraniani. Già nel 2009 era toccato allo studente ed attivista Majid Tavakoli, le cui foto circolate in abiti da donna, gli stessi con cui, stando a quanto riportato dal regime, era riuscito a sfuggire all’arresto, imbottirono per giorni i maggiori media nazionali all’interno di un disegno punitivo esplicitamente denigratorio. A detta dei frangenti che costituiscono l’opposizione, l’intento celato dietro la condanna era indirizzato altresì a schernire il movimento.

L’ultima sentenza, a dispetto degli orientamenti maschilisti, ha tuttavia scaturito un effetto controproducente. Poco dopo il percorso costretto di Dabash per le strade di Marivan, sono state centinaia le donne scese in piazza in segno di manifesta protesta, che hanno provocatoriamente indossato gonnelle e fazzoletti simili a quelli imposti al condannato esposto al pubblico scherno. Al di là della prevista reazione dispotica messa in atto dalla polizia che ha brutalmente allontanato i manifestanti, il più significativo elemento di novità è stata l’adesione degli uomini. Decine di giovani kurdi si sono infatti mobilitati via internet postando sulla principale community del web, Facebook, le proprie foto in abiti muliebri.

In pochi giorni la pagina, intitolata “Kurdish men for equality”, aveva già raggiunto oltre i 15 mila fan, incluso l’israeliano Vadim Jannaeus Zlatkin e molti altri sostenitori dalle differenti nazionalità. Sono state almeno 1.100 le immagini ritraenti “attivisti” di ogni livello anagrafico con indosso il guardaroba di madri, mogli, figlie e qualsivoglia figura femminile loro vicina. Probabilmente non sarà un gesto provocatorio, velato da un’ironica quanto amara indignazione, a bastare per infossare i pregiudizi e per sgomentare le future morali giudiziarie. Fatto sta che, per il momento, sembra essere stata proprio la protesta ad aver spinto ben 17 membri del Parlamento ad infrangere il silenzio, trasmettendo al ministero della Giustizia una lettera esigente adeguati chiarimenti sulle ragioni che continuano a considerare un vestito da donna un emblema equivalente dell’ingiuria. E’ bastato Facebook con le tante foto, divertenti e piacevoli, a smentire questo antico, nonché assurdo, assioma.

 

Letizia Pieri

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