La piega populista sui dirigenti pubblici che partorisce un topolino

Luigi Oliveri 27/03/14
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La questione del “tetto” alle retribuzioni dei dirigenti pubblici sta assumendo ogni giorno di più i connotati della demagogia, che tutto confonde, allo scopo di suscitare ad arte indignazione, per far accrescere i meriti di chi poi intervenga.

Un’opera di vero e proprio populismo e captatio benevolentiae a scopi elettorali. Essi sono più che degni e legittimi. Forse, però, i metodi sarebbero leggermente da modificare, specie quelli delle rilevazioni e delle comunicazioni attraverso i media che indulgono non poco a dare di gomito con Governo e suoi consulenti, per soffiare nel fuoco.

Un primo rilievo, tuttavia, che mette precisamente allo scoperto che si tratti della solita arma di distrazione da altre questioni, è che, comunque sia, la montagna finirebbe per partorire un topolino. Se davvero il risultato cui si ambisce è un taglio di 500 milioni, è bene che si sappia che essi incidono sul totale della spesa pubblica, 807 miliardi, per lo 0,06%. E’ come se una famiglia che spenda all’anno 30.000 euro, decidesse di risparmiare 18 euro all’anno, 5 centesimi al giorno!

L’obiezione a questa osservazione è nota: “ma da qualche parte occorrerà pure cominciare”. Certo, verissimo. Non sarebbe male, tuttavia, se si decidesse una volta e per sempre di affrontare i problemi della dimensione della spesa pubblica a partire dalle voci più consistenti. Se una famiglia deve tagliare le sue spese, non può partire dall’idea di eliminare 18 euro l’anno. Quella è solo la rifinitura di un processo che dovrebbe partire ovviamente da dimensioni molto più ampie, dove i possibili risparmi porterebbero a risultati più elevati.

Non che l’obiettivo di un risparmio di 500 milioni non debba comunque perseguirsi. Sembra, tuttavia, che rispetto al suo reale peso (0,06% della spesa, 0,028% del Pil) l’attenzione del Governo e dei media sia realmente eccessiva.

A soffiare non poco sul fuoco di questa montagna generatrice di sorcetti sono anche la schiera di economisti, postisi alla consulenza del Presidente del consiglio, che aggregandosi a campagne mediatiche già da tempo condotte da altri, battono fortemente su questo tema, come fosse molto più di rilievo di quello che, nei risultati immaginati, effettivamente è.

Tra questi, Roberto Perotti, che su Il Sole 24Ore di domenica 23 marzo, ha affrontato il tema delle retribuzioni dei dirigenti come una messianica missione di salvezza per il mondo, sempre grandemente in sproporzione tra portata vera del tema e impatto propagandistico.

Perotti, nel rappresentare gli esempi delle retribuzioni “troppo alte” della dirigenza, insiste con la generalizzazione dei 150 mila euro annui mediamente guadagnati dai 300 dirigenti “apicali” di regioni ed enti locali. Prontamente, i media del lunedì hanno ripreso questo dato.

Nessuno, però, approfondisce le cause e le ragioni di una remunerazioni considerate eccessive in rapporto a quelle dei dirigenti di Germania e Gran Bretagna. Cosa che, invece, sarebbe alquanto opportuna e necessaria, e che andrebbe affrontata non limitandosi a guardare gli effetti, cioè le retribuzioni medie, ma le loro cause.

Soffermiamoci sul comparto regioni ed enti locali, preso particolarmente di mira, per provare a dare qualche informazione che i media si rifiutano di esporre, confondendo i cittadini, già storditi dalla confusione tra “manager pubblici” (i capi di aziende come Eenel, Poste, Ferrovie) e i dirigenti pubblici, fattispecie completamente diverse.

Partiamo, intanto, dai dirigenti considerabili “non apicali”. Perotti su La Voce.info ha stimato una retribuzione media di circa 115 mila euro lordi l’anno.

Questa stima non torna con le rilevazioni del Conto Annuale del Tesoro, che quantifica la retribuzione media in 98.247 euro. Non paia un dettaglio: è circa il 15% in meno delle stime proposte da un consulente del Governo. Quel Governo incerto se proporre un taglio del 25% sulle retribuzioni dirigenziali di ministeri ed enti locali, oppure una serie di scaglioni progressivi de 6%, 7% e 8% a seconda dei valori annui massimi percepiti. Dunque, ragionare sulle cifre esatte e corrette non è affatto da trascurare, perché l’entità dei risparmi effettivamente conseguibili deriva proprio da questo, al di là di ogni populistico messaggio ad effetto.

Ammettiamo pure, comunque, che in effetti i dirigenti del comparto regioni enti locali percepiscano 115.000 euro l’anno. C’è un’altra cosa che non torna, più grave. Di che si tratta?

Il “burocrate” va a leggere dati che l’economista di solito trascura. Deformazione professionale. Quali dati? Le “norme”, nella specie la contrattazione nazionale collettiva che stabilisce la composizione della retribuzione dei dirigenti, la quale è la seguente:

a)      retribuzione tabellare: 43.311 euro lordi l’anno;

b)      vacanza contrattuale: 315 euro lordi l’anno;

c)      retribuzione di posizione, oscillante tra un minimo di euro 11.533,17 e un massimo di 45.102,87;

d)     retribuzione di risultato: poiché il fondo per la contrattazione decentrata della dirigenza deve essere composto per almeno il 15% in modo da finanziare tale retribuzione, essa può mediamente stimarsi nel 15% della retribuzione complessiva.

Ora, nel massimo, dunque, i dirigenti degli enti locali dovrebbero avere una retribuzione annua pari ad euro 89.028,87, più un 15%, per complessivi 102.383,2.

Invece, le stime di Perotti sono più alte, mentre le rilevazioni ufficiali leggermente più basse. Le rilevazioni del Conto Annuale appaiono quelle più veritiere, per una ragione semplicissima: sono maggiormente rispondenti alla circostanza che la retribuzione di posizione, come si nota, ha una banda di oscillazione elevatissima. Dunque, se c’è un trattamento economico medio annuo di poco più di 98.000 euro lordi annui, è chiaro che vi sono moltissimi trattamenti largamente al di sotto di tale media, ma molti altri ampiamente al di sopra.

Questo non dovrebbe essere possibile. Trattandosi, infatti, di un “tetto”, la media delle retribuzioni dirigenziali dovrebbe risultare significativamente più bassa di quel tetto e non addirittura poco al di sopra.

Come mai questo non avviene? Torniamo alla contrattazione collettiva. Il burocrate polveroso e pignolo, va a leggere l’articolo 27, commi 5 e 6, del Ccnl 23.12.1999 ove si legge:

5. I Comuni e le Camere di Commercio, con strutture organizzative complesse approvate con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, che dispongano delle relative risorse, possono superare il valore massimo della retribuzione di posizione indicato nel comma 2.

6. Le Regioni e le Province, nell’ambito delle risorse disponibili ai sensi dell’art. 26, possono determinare valori superiori a quello massimo indicato nel comma 2 per la retribuzione di posizione delle funzioni dirigenziali di massima responsabilità previste dai rispettivi ordinamenti, qualora gli stessi enti, nell’ambito delle regole definite in base alla loro autonomia organizzativa, non conferiscano, all’interno o all’esterno, i relativi incarichi mediante contratto individuale a termine di diritto privato con oneri a carico dei singoli bilanci”.

Poi, sempre per la borbonica puntigliosità, il burocrate va anche a leggere l’articolo 110, comma 3, del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, il d.lgs 267/2000, in tema di assunzioni di dirigenti a tempo determinato: “I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. Il trattamento economico, equivalente a quello previsto dai vigenti contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il trattamento economico e l’eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio dell’ente e non vanno imputati al costo contrattuale e del personale”.

Ecco, dunque, la spiegazione che non si leggerà mai sulla stampa e sulle rilevazioni economiche, specie se finalizzate alla propaganda utile alla linea del Governo.

Se vi sono dirigenti pubblici degli enti locali che guadagnano cifre elevatissime, tali da portare ad una media di oltre 98000 euro l’anno, questo non è frutto del destino cinico e baro o di un’imposizione normativa che i politici, obtorto collo, debbono sopportare e alla quale ora intendono porre rimedio con un beau geste.

E’ esattamente vero il contrario: le giunte in particolare di regioni, comuni e camere di commercio hanno fatto utilizzo a piene mani della possibilità di infrangere i tetti massimi previsti dalla contrattazione collettiva, assegnando soprattutto ai dirigenti esterni e a quelli “più vicini” retribuzioni annue molto, ma molto maggiori al massimo possibile, che non potrebbe ragionevolmente andare oltre i 102 mila euro l’anno. Per avere contezza di ciò, basta navigare sui siti: la trasparenza, da questo punto di vista, aiuta molto una presa di coscienza.

Dunque, le cifre molto alte che vengono spesso sbandierate (così da far credere che tutti i dirigenti pubblici guadagnino stipendi faraonici) altro non sono se non diretta, piena ed esclusiva responsabilità degli organi di governo, che hanno deciso di superare i limiti contrattuali.

Questo vale non solo per l’ordinamento locale, ma anche per tutti gli altri comparti e non parliamo nemmeno delle retribuzioni dei manager delle società partecipate e degli enti pubblici.

Piuttosto, allora, di urlare ai quattro venti che le retribuzioni dei dirigenti sono troppo alte, come se ciò fosse ineluttabile o imposto, perché non si completano i dati economici con quelli giuridici e invece di elucubrare sulle percentuali dei tagli da apportare non si fa una scelta facilissima? Quella, cioè, di abolire ogni disposizione che consenta di derogare ai tetti (deroghe le quali, a ben vedere, rendono i tetti una burla) e ricondurre, dunque, tutte le retribuzioni superiori ad essi entro i margini.

Il risparmio sarebbe immediato e certo. Non dovesse bastare a conseguire il risultato di 500.000 euro (del che si dubita), sarebbe possibile anche immaginare poi riduzioni trasversali ulteriori. Ma, intanto, si eliminerebbe in radice il malcostume di sforare regolarmente limiti massimi di spesa e creare giungle retributive con posizioni talvolta indifendibili.

Quanto detto sopra vale, ancora a maggior ragione per i famosi 300 dirigenti “apicali” degli enti locali.

A parte che tecnicamente i dirigenti “apicali” nel comparto regioni-enti locali non esistono, verosimilmente essi sono da identificare con i direttori generali di comuni e province e con dirigenti di massima struttura delle regioni.

Se la media delle loro retribuzioni è 150.000 euro, ancor più lampante è lo sforamento del tetto massimo visto prima.

Il fatto è, tuttavia, che moltissimi di questi “apicali” non sono veri e propri dirigenti locali. Alcuni sono segretari comunali e provinciali, che non appartengono al ruolo dei dirigenti. E giungono a retribuzioni quasi doppie rispetto a quelle dei dirigenti, perché, sempre a causa della legislazione permissiva e di scelte precise dei sindaci e, comunque, della politica, cumulano alla retribuzione (di poco inferiore, in media, a quella dei dirigenti) anche l’indennità per direzione generale, in media di circa 70.000 euro, quasi raddoppiando gli emolumenti. Altri, sono direttori generali esterni che si aggiungono alla compagine dirigenziale spesso remunerati con stipendi elevatissimi, più vicini ai 200.000 euro che ai 150.000 euro.

Il tutto, per altro, per l’esercizio di una funzione, quella del “city manager” che, come si nota, è costosissima, ma non ha per niente prodotto i risultati di efficienza e managerialità vaneggiati dall’articolo 108 del d.lgs 267/2000, come dimostra la condizione disastrata a dir poco di enti in cui da anni si succedono fior di city manager come Roma, Torino, Alessandria, Parma, Catania, Palermo o Napoli.

Ancora. E’ acclarata nei fatti la tendenza a retribuire con cifre più alte i dirigenti “a contratto”, quelli cioè assunti con contratto di lavoro a tempo determinato senza concorso direttamente dai sindaci, poiché, come visto sopra, è possibile che sempre gli organi politici decidano di assegnare loro un’indennità aggiuntiva “ad personam”.

I dirigenti esterni negli enti locali non dovrebbero, in media, essere più del 10% di quelli previsti dalle dotazioni organiche. Infatti, l’articolo 19, comma 6-quater, del d.lgs 165/2001 consente di acquisire dirigenti esterni entro 10 per cento della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato. Per i comuni con popolazione inferiore o pari a 100.000 abitanti il limite è pari al 20 per cento della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato; Per i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti e inferiore o pari a 250.000 abitanti il limite massimo può essere elevato fino al 13 per cento della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato a valere sulle ordinarie facoltà per le assunzioni a tempo indeterminato.

Dai dati del Conto Annuale emerge che su 7866 dirigenti, 1536 sono a tempo determinato, pari cioè al 19,5%, il doppio di quanto consentito. Questa è un’altra delle ragioni della spesa in qualche modo eccessiva. Anche in questo caso, il meccanismo non vale solo per il comparto regioni-enti locali, ma si estende a tutti gli altri, come dimostra la situazione clamorosa dell’Agenzia delle entrate.

Un’altra semplicissima soluzione, allora, sarebbe eliminare drasticamente la dirigenza a contratto, spessissimo un sistema per politicizzare la dirigenza ed inserire, senza nemmeno concorsi, persone nell’apparato amministrativo per sola consonanza alla maggioranza al governo, contestualmente all’abolizione di indennità ad personam e deroghe ai tetti.

Le soluzioni vere ai problemi, al di là dei proclami ci sono. Il difficile è immaginare che arrivino, tuttavia, dai centri decisionali.

Sul tema della riforma della pubblica amministrazione e dei compensi alla dirigenza si sta spendento, ad esempio, il sottosegretario alla Funzione Pubblica, Angelo Rughetti, proveniente dall’associazione nazionale dei comuni, l’Anci, dove prestava servizio come direttore generale, con una retribuzione di circa 250.000 euro, che l’associazione, una specie di Confindustria dei comuni, finanziava anche con le quote associative dei comuni stessi, dunque, con risorse pubbliche. E l’Anci nulla ha fatto per contenere, nei comuni, le dinamiche descritte sopra, causa prima dell’esplosione dei costi della dirigenza. Nello stesso tempo, il nuovo segretario generale della Presidenza del consiglio, ex direttore generale del comune di Reggio Emilia quando era sindaco l’attuale Sottosegretario alla presidenza, da notizie di stampa pare spingere per ripristinare la figura, di utilità estremamente discutibile, del direttore generale nei comuni con popolazione compresa tra i 50.000 ed i 100.000 abitanti.

Insomma, sembra evidente che Governo e media intendano porre un problema per riscuotere automatico ed elevato consenso, ma non pare proprio che riescano davvero a centrare le cause, né che chi dovrebbe intervenire per risolverlo abbia, quando poteva nel passato, svolto alcuna azione attiva per impedire che si presentasse.

A queste condizioni, il rischio è che la dimensione populista che si è data al problema faccia scaturire soluzioni altrettanto demagogiche, dunque poco meditate e dannose.

 

 

 

Luigi Oliveri

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