La crisi della politica. Chi i responsabili?

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Per dare una risposta agli scandali Lusi e Lega le forze politiche che oggi sostengono il Governo si affannano a trovare soluzioni immediate: bilanci  certificati, sottoposti alla Corte dei conti, disponibili sul web, pubblicità  dei nomi di chi versa privatamente oltre 5mila euro, sanzioni per le violazioni.

Tutto qua?

Sembrerebbe di sì a leggere le dichiarazioni dei principali esponenti dei partiti. Attendiamo fiduciosi…

Intanto, si susseguono le opposte prese di posizione indignate o virtuose.

Non si può fare d’ogni erba un fascio”, “non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali”, “i politici corrotti sono una minoranza” e via di seguito.

Tutti abbiamo imparato a conoscere una figura quella del tesoriere che viene dipinto come detentore di un potere assoluto di gestione, privo di controlli o di obblighi.

Ma è possibile?

Non v’è dubbio che la responsabilità penale è personale e se qualcuno ha commesso reati ne risponderà personalmente.

E la responsabilità politica?

Chi ha nominato il tesoriere?

Chi non gli ha chiesto il conto della sua gestione?

Come è possibile che soltanto dopo l’avvio di un inchiesta giudiziaria tutti scoprono la mala gestione?

Se non altro, al di là di ogni valutazione nel merito dell’inchiesta, va preso nota della decisione immediata dei vertici della Lega di presentare le dimissioni.

E gli altri?

E così, per l’ennesima volta, come scrive Stefano Rodotà, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all’obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile.

Più che restyling di facciata, occorre una risposta immediata che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l’ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate.

“Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito”.

Occorre spiegare ai cittadini il senso di ciò che appare come un evidente vulnus alla democrazia, dopo il referendum del 18 e 19 aprile 1993.

Al quesito: “Volete voi che siano abrogati gli artt. 3 e 9 della legge 2 maggio 1974, n. 195: “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”, così come modificati e integrati: dalla legge 16 gennaio 1978, n. 11: “Modifiche alla legge 2 maggio 1974, n. 195”; dall’art. 3, comma 1  e dal comma 6 della legge 18 novembre 1981, n. 659: “Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195 sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”?, i cittadini risposero in massa con ben il 90,30% di risposte affermative pari a 31.225.867 votanti (pari a circa il 65,12% del corpo elettorale).

Nonostante il referendum, nel 1996 (Legge 2 gennaio 1997 n. 2) veniva approvata una legge volta a reintrodurre il meccanismo del finanziamento pubblico dei partiti attraverso la possibilità per i contribuenti di devolvere il «quattro per mille» dell’Irpef a questo scopo (peraltro il cittadino disponibile non poteva finanziare il suo partito, ma era costretto a finanziarli tutti e comunque venne stabilito che fosse sufficiente il parere favorevole del 15% dei contribuenti affinché ai partiti fosse assegnato il tetto massimo stabilito dalla legge).

Per poi arrivare alla Legge 3 giugno 1999 n. 157 “Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici” che ha reintrodotto di fatto il finanziamento pubblico”, all’origine degli scandali e delle ruberie da tempo agli onori della cronaca.

Si può discutere molto sull’opportunità di una finanziamento pubblico per le spese elettorali come garanzia della parità di accesso che non privilegi soltanto i detentori di cospicue disponibilità finanziarie o che renda la politica fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico.

Ma sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d’ogni finanziatore; vanno fissati limiti credibili e ragionevoli di spese e di rimborsi, con controlli ineludibili.

La Legge vigente prevede: “È attribuito ai movimenti o partiti politici un rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei consigli regionali”.

Se si tratta di rimborsi, perché mai non viene richiesta la rendicontazione e si liquida sulla base delle spese effettivamente sostenute (ovviamente entro limiti massimi prefissati)?

Scrive Angelo Panebianco che “Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori antipolitici, che quella crisi sia un colpo all’antipolitica. Semmai, contribuisce a esasperarla. L’antipolitica è il convitato di pietra della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili. Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Con effetti di condizionamento sull’intera politica italiana”.

Come non dargli ragione?

E il tema delle retribuzioni dei titolari di incarichi pubblici?

Dopo quasi un anno dalla solenne dichiarazione di intenti di Governo e partiti politici, oggi è quasi passato sotto silenzio il deposito della relazione finale della Commissione sul livellamento retributivo Italia-Europa istituita dall’art. 1 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con legge 15 luglio 2011, n. 111, con il compito di provvedere alla ricognizione e all’individuazione “della media ponderata rispetto al PIL dei trattamenti economici percepiti annualmente dai titolari di omologhe cariche e incarichi nei sei principali Stati dell’Area Euro riferiti all’anno precedente e aggiornati all’anno in corso sulla base delle previsioni dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo contenute nel Documento di economia e finanza” e con la previsione che le determinazioni della Commissione “si applicano a decorrere dalle prossime elezioni, nomine o rinnovi e, comunque, per i compensi, le retribuzioni e le indennità che non siano stati ancora determinati alla data di entrata in vigore del presente decreto”;

Nonostante l’intenso lavoro svolto nei mesi scorsi, i vincoli posti dalla legge, l’eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri paesi e le difficoltà incontrate nella raccolta dei dati non hanno consentito alla Commissione di produrre i risultati attesi.

In conclusione, si legge nella relazione finale, nessun provvedimento può essere assunto dalla Commissione per i fini previsti dalla legge.

La Commissione segnala al Governo l’opportunità di riconsiderare la normativa vigente, la quale appare obbiettivamente di difficile (se non impossibile) applicazione.

Alla luce dell’esperienza maturata e delle evidenti difficoltà incontrate nello svolgimento dei propri lavori, anche a causa della formulazione della normativa vigente, la Commissione ha ritenuto doveroso rimettere il mandato ricevuto.

Il Governo da parte sua ha “preso atto del lavoro svolto dalla Commissione e proseguirà la propria azione nell’obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche, tenendo conto dell’indisponibilità dei dati di riferimento negli altri paesi europei. Il Governo è consapevole della necessità di completare nel più breve tempo possibile il percorso avviato nel luglio 2011 e proseguito con l’attuazione delle norme contenute nel decreto Salva Italia per il contenimento delle retribuzioni dell’alta dirigenza nei limiti del tetto previsto”.

Adesso è la politica che deve prendersi le sue responsabilità.

Ma ci chiediamo: per fissare dei tetti retributivi era davvero necessario ricorrere ad una Commissione, con un sistema così complesso da divenire, come prevedibile, di impossibile attuazione? O è stato solo un alibi per prendere tempo?

Adesso, il tempo è scaduto.

Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione, instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti da tanti come un problema anziché una soluzione. Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall’angolo mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe in breve tempo vacillare sotto l’urto di ondate di protesta sempre più impetuose e pericolose”.

Per questo bisogna ripartire dal basso, per questo continuiamo a chiedere la tutela delle autonomie locali, per questo occorre che i cittadini abbiano la sensazione di una politica vicina ai bisogni ed alle aspettative, che sappia dare risposte immediate e che sia soggetta al controllo diretto e immediato del cittadino elettore.

Per questo continuiamo a ritenere del tutto insensato tagliare le rappresentanze politiche locali e mantenere inalterato quel ceto politico nazionale che appare troppo preoccupato della propria sopravvivenza politica a breve termine per rendersi conto di quanto sta realmente accadendo.

Carlo Rapicavoli

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