La Consulta: “Essere mafiosi e’ piu’ grave che essere omicidi”

Redazione 13/05/11
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“Il giudizio di disvalore dell’ordinamento interno e di quello comunitario nei confronti dei delitti di mafia non è assimilabile nemmeno a quello nei confronti dell’omicidio”.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con sentenza depositata ieri, numero 164 del 2011.

Immediate le reazioni del Governo:

Maroni si è detto “allibito” per la decisione della Corte; il Ministero dell’Interno ha subito pubblicato sul sito una dichiarazione del sottosegretario Mantovano, che così reca:

La Corte Costituzionale è chiamata a verificare la compatibilità con la legge fondamentale della Repubblica delle scelte legislative ordinarie del Parlamento. Non le compete invece esercitare quella discrezionalità che rinvia all’opzione politica del legislatore.
Con la sentenza di oggi la Corte non nega in assoluto il carcere come sola misura cautelare, tant’è che la ammette per reati di mafia.
Boccia invece la scelta fatta dal Parlamento due anni fa di rendere il carcere obbligatorio per l’omicidio.
In sintesi, se vengo imputato per concorso esterno in associazione mafiosa non ho alternativa alle sbarre, se mi sono invece ‘limitato’ ad ammazzare una persona posso restare nel salotto di casa.
Se vi erano dunque ancora dubbi sulla necessità di una riforma della giustizia e della Consulta questa sentenza li fuga completamente”.

Il caso

L’imputata si era legata sentimentalmente a un pericoloso e violento pregiudicato (la vittima dell’omicidio), che per anni l’avrebbe costretta a prostituirsi, lucrando sui proventi di tale attività. Avendo quindi conosciuto il coimputato, avrebbe cercato invano di «emanciparsi» dal precedente compagno, il quale, anziché rassegnarsi alla nuova relazione, avrebbe compiuto gravi atti di intimidazione, diretta e indiretta, contro l’imputata e il rivale”.

Secondo il Tribunale di Lecce rimettente, il fatto delittuoso oggetto di contestazione si connoterebbe come episodio “a carattere reattivo a fronte di una lunga storia di violenze subite» dall’imputata, nell’ambito di una relazione affettiva in dissoluzione.

Si tratterebbe dunque di una vicenda tanto grave quanto triste, maturata in un contesto sociale, culturale ed affettivo molto degradato”.

La norma impugnata

L’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 cod. pen., sia applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non facendo altresì salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

L’opinione del giudice a quo

Neanche il reato di omicidio può essere infatti assimilato, in relazione alle esigenze cautelari, ai delitti di mafia, relativamente ai quali tanto questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, sancita dalla norma censurata.

Per quanto gravi, i fatti che integrano il delitto punito dall’art. 575 cod. pen. presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili, sia sul piano della condotta (trattandosi di reato a forma libera) che su quello dell’elemento psicologico – come attesterebbero i casi dell’omicidio commesso con dolo eventuale o d’impeto, o per reazione all’altrui provocazione, ovvero, ancora, per motivi di particolare valore morale o sociale – e, soprattutto, potrebbero bene proporre esigenze cautelari affrontabili con misure diverse dalla custodia carceraria”.

La decisione della Corte

Sia la Corte Costituzionale (ordinanza n. 450 del 1995), che della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). hanno  valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.

Con il ‘pacchetto sicurezza’ del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha invece compiuto «un ‘salto di qualità’ a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee.

L’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

L’omicidio al contrario non è di per sè un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere.

L’omicidio può bene essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi che si collocano alla radice dell’episodio criminoso possono risultare, in effetti, correlati a speciali contingenze – come, ad esempio, per i fatti commessi in risposta a specifici comportamenti lato sensu provocatori della vittima – ovvero a tensioni maturate, in tempi più o meno lunghi, nell’ambito di particolari contesti, da quello familiare a quello dei rapporti socio-economici.

In definitiva – contrariamente a quanto sostenuto dalla Presidenza del Consiglio – né il primario rilievo dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, né esigenze di contenimento di eventuali situazioni di allarme sociale possono per altro verso valere, di per sé, come base di legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di qui, dunque, l’esigenza costituzionale di trasformarla in presunzione solo relativa” (presidente Paolo Maddalena, redattore Giuseppe Frigo).

Qui il testo integrale della sentenza 164 del 2011

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