Incidenti stradali: il danno alla vita può essere risarcito agli eredi

Redazione 02/03/14
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La sentenza di Cassazione n. 1361 del 24 gennaio 2014 sicuramente non si può dire che è ristretta, infatti, la stessa è lunga e articolata nella motivazione per oltre cento pagine di stesura.

Il seguente articolo è firmato da Girolamo Simonato, comandante di Polizia e direttore del sito Motorioggi.it.

L’oggetto del contendere è quello della risarcibilità del danno non patrimoniale in tutte le sue componenti o “voci”, sancendo il principio di diritto per il quale deve essere riconosciuta come categoria ontologica a sé stante anche il danno da perdita della vita subito dalla vittima iure proprio.

Secondo i Giudici della Terza Sezione Civile, costituisce danno non patrimoniale risarcibile anche: “il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’Ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica”.

Tale danno è indipendente dalle sofferenze patite dal soggetto e quindi è riconosciuto anche nel caso in cui il soggetto sia sopravvissuto all’incidente stradale anche solo per un tempo di per sé irrilevante, come poche ore.

L’orientamento consolidato della Cassazione precedente a tale sentenza, riteneva necessario ai fini del risarcimento del danno in capo agli eredi, un considerevole lasso di tempo dal momento dell’incidente fino alla morte.

Quello che si legge nella corposa sentenza è che non si dà rilievo al tempo ma al diritto alla vita in sé e per sé considerato.

Prima di addentrarci nella sentenza è opportuno considerare il diritto alla vita, il quale è ricopre notevole importanza sia sotto l’aspetto del diritto costituzionale, nel caso di specie l’art. 2 che così afferma La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

La nostra Costituzione ha sancito il diritto che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali sociali, inoltre, l’ordinamento giuridico italiano, ai sensi dell’art. 10 comma 1 della Costituzione, afferma che vi ci si deve conformare alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.

A questo proposito la Convenzione Europea Diritti dell’Uomo (CEDU) all’art. 2 “Diritto alla vita”, entra nello specifico in questa sentenza trova la sua corretta applicazione, infatti, si legge: Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena.

A seguire riporta: la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:

  1. per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;
  2. per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta;
  1. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.

Ritornando alla sentenza, nel momento in cui viene meno questo diritto assoluto in capo al soggetto per colpa di un terzo, come nel caso di specie, che a causa di un incidente stradale, l’ordinamento deve riconoscere un risarcimento del danno agli eredi per il solo fatto della perdita della vita del proprio congiunto.

La sentenza riporta il precedente orientamento suffragato dalla Corte Costituzionale “La risarcibilità del danno da perdita della vita e’ stata dalla Corte Costituzionale negata sulla base del rilievo che oggetto di risarcimento può essere solo la “perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”, laddove la morte immediata non è invero una “perdita” a carico “della persona offesa”, in quanto la stessa è “non più in vita” così Corte Cost., 27/10/1994, n. 372, che nel dichiarare la non fondatezza, in riferimento agli articoli 2 e 32 Cost., della questione di costituzionalità dell’articolo 2043 c.c., nella parte in cui non consente il risarcimento iure hereditatis del “danno biologico da morte”, ha affermato il principio in base al quale, diversamente dalla lesione del diritto alla salute, la lesione immediata del diritto alla vita (senza una fase intermedia di malattia) non può configurare una perdita (e cioè una diminuzione o privazione di un valore personale) a carico della vittima ormai non più in vita, onde e’ da escludere che un diritto al risarcimento del cd. “danno biologico da morte” entri nel patrimonio dell’offeso deceduto e sia, quindi, trasmissibile ai congiunti in qualità di eredi, in ragione non già del carattere non patrimoniale del danno suddetto bensì del limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l’oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa”.

 Come si evince, nella medesime vi è un riferimento al già citato e commentato art. 2 della Costituzione, oltre all’art. 32 il quale pone come principio la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Questa nuova pronuncia della Corte di Cassazione consente di affermare che si è puntualizzato il momento dell’individuazione e della liquidazione del danno, piuttosto che aderire aprioristicamente ora ad una ora ad altra teoria in materia di danni alla persona, ed offrire una risposta preconcetta e perciò ingiusta alla domanda che gli è rivolta.

L’attività del giudice deve semplicemente confrontarsi con tutto il fatto concreto che ha davanti; tener conto cioè delle comprovate peculiarità delle vicende da decidere ed assicurare il corretto ed integrale risarcimento di tutte le lesioni degli interessi della persona, tenuto in debita considerazione non solamente il diritto interno ma anche il diritto Internazionale e quello Comunitario.

Nel giudicare deve tener in debita considerazione la natura del caso e non prettamente la valutazione economica, riconducibile alla responsabilità dell’evento che egli deve giudicare, dei quali venga comprovata nel processo l’autonomia e la distinzione non meramente nominalistica dell’uno dagli altri. Deve, inoltre, adoperare nella liquidazione dei danni parametri di equità e ragionevolezza, confrontandosi con le tabelle di liquidazione utilizzate nell’ambito degli uffici giudiziari, le quali tuttavia offrono un parametro di valutazione standard che non può mai confiscare il potere-dovere del giudice di apprezzare (all’occorrenza) la concretezza dei danni in merito a ciascuna differente vicenda.

Il diritto al risarcimento dei danni dei prossimi congiunti, come giustamente ha optato la Corte, ricorre non solo nel caso di perdita del rapporto parentale, ma anche nel caso di lesioni dello stesso rapporto che incidano i diritti inviolabili della famiglia ed integrità dei rapporti tra i suoi componenti, determinandone sofferenze e limitazioni.

Se fossero chiare queste premesse, intese ad accrescere la certezza nella gestione dei concreti criteri diliquidazione dei danni non patrimoniali, potrebbe pure scemare di molto l’importanza dell’altra discussione che più fortemente attanaglia gli interpreti da oltre un decennio, e che attiene all’individuazione delle varie voci dei pregiudizi alla persona da considerare nella liquidazione.

Sotto questo ultimo aspetto la sentenza della Cassazione n.1361/2014 ha peraltro confermato l’esistenza della collaudata triade costituita dai pregiudizi di natura esistenziale, morale e biologico, sia pure non come categoria di danni a sé, ma come aspetti descrittivi, ancorché ontologicamente diversi, della unica categoria del danno non patrimoniale, facendo esplicito riferimento non tanto ai travagliati antefatti delle due sentenze del 24.10.2007 della Corte costituzionale, nn. 348 e 349, conosciute come le Sentenza gemelle, che hanno per la prima volta segnato un solco indelebile nell’interpretazione delle norme non solo nazionali, costituiti dalle pronunce sul tema della Corte europea dei diritti, nella scettica accoglienza ricevuta dalla Suprema Corte italiana, il che richiedeva comunque un opportuno pronunciamento della Corte costituzionale sul tema della gerarchia delle fonti, ma soprattutto al tipo di sentenze che è stato reso, in riferimento sia ai precedenti, contrari, della stessa Consulta, sia al parametro costituzionale utilizzato. Anche il problema residuo della disciplina applicabile si colora ora in modo diverso dalle esperienze passate, posto che il rassicurante approdo al suppletivo criterio del prezzo di mercato parrebbe ora meno agevole, atteso il tenore delle motivazioni inequivocabilmente svolte dalla Corte sul concetto costituzionale di indennità.

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