Il presente articolo è una replica a questo intervento di Daniele Trabucco (ndR)
Il Dottor Trabucco, con il suo scritto del 28 marzo u.s., conduce invece correttamente la sua analisi in molti punti. Tuttavia, è l’impianto complessivo a destare le maggiori perplessità sulla sostenibilità della sua ricostruzione: premesse errate o solo parzialmente corrette rischiano sempre di condurre ad esiti non veri, anche quando l’analisi sia stata condotta con rigore.
Anzitutto, pur concedendogli la difesa della impossibile esaustività d’un semplice articolo di giornale, appare subito evidente che il Dottor Trabucco non potrebbe con il suo scritto venire promosso a pieni voti nel test del Prof. James Crawford, illustrissimo internazionalista (1996; in tal senso anche Cassese, 1995): l’autodeterminazione dei popoli (the law of self-determination, nella dottrina anglofona) si compone di due distinti tronconi, che sono il diritto all’autodeterminazione (right to self-determination) ed il principio di autodeterminazione (principle of self-determination). Il primo è un istituto giuridico, un diritto-pretesa che solo alcuni popoli possono vantare nei confronti dell’ordinamento internazionale (è diritto almeno dal 1960); il secondo è un principio generale del diritto internazionale, applicabile a tutti i popoli indistintamente (è diritto già dal 1945, all’art. 1 (2) della Carta ONU).
Ciò che il Dottor Trabucco nomina – con imprecisione sua, pur trovandosi in ottima compagnia tra i costituzionalisti italiani – “diritto di autodeterminazione dei popoli”, è in realtà il “diritto all’autodeterminazione dei popoli” (right to self-determination). Questo diritto, di cui correttamente descrive la non applicabilità ai Veneti, è in vero un diritto-pretesa che spetta i popoli sottoposto a giogo coloniale, più generalmente sotto occupazione di forze straniere, oppure, secondo sviluppi successivi, in regime di segregazione razziale. La pretesa, che tale “right to” è posto a difendere, è garantita dall’ordinamento internazionale ai popoli qualificati da tali terribili situazioni, consiste nel diritto del popolo così oppresso di ottenere l’indipendenza dallo Stato occupante, tramite l’aiuto diretto degli organi dell’ONU: spetta all’Assemblea Generale del’ONU stabilire quali siano i popoli bisognosi di questo speciale diritto-pretesa (claim right, nella dottrina anglofona) garantito dall’ordinamento internazionale. L’Assemblea Generale ha delegato tali mansioni ad un’apposita Commissione, deputata ad assistere i popoli che si trovino in tali condizioni giuridiche: l’occorrenza di queste condizioni fa scattare lo speciale diritto all‘autodeterminazione.
Il principio di autodeterminazione dei popoli, invece, è un principio generale dell’ordinamento giuridico internazionale, e pertanto, come conferma la Corte Internazionale di Giustizia, esso è fonte del diritto ex art. 38 dello Statuto della Corte stessa. Essendo un principio generale ed irrelato a situazioni di specifico bisogno, il principio di autodeterminazione dei popoli è un principio applicabile a tutti i popoli in generale, a prescindere dall’inveramento di quelle condizioni di gravissimo disagio che conferiscono quel diritto garantito dall’ONU di conseguire l’indipendenza.
Non solo: tutta la dottrina giuridica dell’autodeterminazione dei popoli è, sempre secondo la Corte Internazionale di Giustizia, interamente parte del diritto internazionale cogente (jus cogens). Pertanto, tra le norme gerarchicamente ed assiologicamente più importanti del diritto internazionale (cioè tra le norme di diritto cogente, cui nessuna norma può mai derogare), sono contenute le manifestazioni più alte della civiltà giuridica globale: la proibizione della schiavitù, il divieto di tortura, il divieto di aggressione e l’autodeterminazione dei popoli (anche altre norme vi rientrerebbero, ma su queste si concorda estesamente).
Ha dunque perfettamente ragione il Dottor Trabucco quando afferma che ai Veneti non spetterebbe il diritto alla secessione: ai Veneti, infatti, l’ordinamento internazionale non garantisce il proprio sostegno diretto (come invece lo garantisce nel caso dei popoli in gravissimo stato di sottomissione coloniale o di occupazione militare o segregazione razziale). Tuttavia, pur non garantendo ai Veneti di conseguire certamente l’indipendenza con l’aiuto dell’ONU, ciò non significa che il diritto internazionale vieti ai Veneti (e così anche a Catalani o Scozzesi o altri volenterosi) il diritto-libertà di perseguire l’obiettivo indipendenza (liberty right, nella dottrina anglofona).
Il ricorso logico alla categoria del diritto-pretesa rispetto al diritto-libertà è dirimente: nel primo caso, l’ordinamento garantisce attivamente l’esercizio del diritto di un popolo colonizzato di conseguire l’obiettivo indipendenza; nel secondo caso, il diritto internazionale consente passivamente l’esercizio del diritto di un popolo non-colonizzato di perseguire l’obiettivo indipendenza, senza mai garantirgli che lo conseguirà, ma nemmeno negandogli di poterlo conseguire con le proprie forze.
La funzione discretiva di questa semplice categoria giuridica è nota anche alla più illustre dottrina costituzionale italiana, che nomina i diritti-libertà come diritti di prima generazione, e i diritti-pretesa come diritti di seconda generazione: non a caso, il generale diritto-libertà di autodeterminazione (1945) è effettivamente di prima generazione, giacché lo speciale diritto-pretesa all’autodeterminazione è temporalmente successivo e logicamente derivato dal primo (1960).
Ed è in realtà la stessa Corte Internazionale di Giustizia a confortare questa visione, proprio nel tanto citato e poco capito parere del 2010 sul Kosovo.
In tale parere, la Corte compie almeno tre asserzioni decisamente rilevanti: non vige in diritto internazionale alcun divieto di dichiarare l’indipendenza (par. 79 del Parere), la secessione non è in contrasto con il principio di integrità territoriale degli Stati (par. 80), ed infine che in diritto internazionale vige il principio di libertà (par. 56). In altre parole, come esattamente la Corte dice: “In vero, è perfettamente possibile che un certo atto – come per esempio una dichiarazione unilaterale di indipendenza – non sia in violazione del diritto internazionale anche qualora non costituisca esercizio di un diritto da esso conferito” (par. 56 del Parere).
Tuttavia, diversamente da quanto Trabucco lascia trasparire, queste affermazioni della Corte non riguardano il solo caso Kosovo, in quanto, come si evince della struttura del parere e come sostiene la Corte stessa, queste argomentazioni derivano dal diritto internazionale generale, e non certo dalla lex specialis sul Kosovo. La dottrina Kosovo, in altre parole, costituisce un precedente giuridico, in quanto tutte le argomentazioni chiave si basano solo ed esclusivamente sul diritto internazionale generale, pattizio o consuetudinario. Della specialità del caso Kosovo è dato conto nella seconda parte del Parere, giacché la Corte, molto saggiamente, ha tenuto le argomentazioni giuridiche generali nella prima parte e relegato quelle speciali sul Kosovo nella seconda parte (paragrafi 85-121), appositamente per evitare quella indebita confusione di piani sulla quale ingiustificabilmente tacciono troppi costituzionalisti e pure alcuni internazionalisti.
L’argomentazione sul valore generale di questi asserti è tale che alcuni autori, su tutti Tancredi, si sono spinti a determinare le caratteristiche della corretta procedura di secessione unilaterale in diritto internazionale.
Riassumendo, secondo il diritto internazionale, ai Veneti spetta il diritto-libertà di tentare la via dell’autodeterminazione anche fino alla completa indipendenza, coperto dal principio di libertà in diritto internazionale, dal generale principio di autodeterminazione dei popoli ed infine dall’assenza in diritto internazionale di alcun divieto di secessione. Per converso, non spetta ai Veneti, ma solo a certi popoli in condizioni gravi, quello speciale diritto-pretesa di ottenere per certo l’aiuto dell’ONU fino al sicuro raggiungimento dell’indipendenza (lo speciale diritto all’autodeterminazione dei popoli… colonizzati).
Venendo, brevemente, alla Costituzione Italiana, l’asserita non complanarità tra l’art. 5 sull’indivisibilità della Repubblica (si badi bene: è la Repubblica ad essere indivisibile, non l’Italia o il popolo italiano) e l’art. 80 sulla ratifica dei trattati internazionali che comportino “variazioni del territorio” è tutt’altro che dimostrata dalle argomentazioni del Dottor Trabucco, in merito alle quali per il momento mi limito a far osservare che Esposito, da lui citato, rifletté sul valore dell’art. 5 Cost. in tempi ben anteriori alla recente abrogazione delle norme penali che, così dolci al boccato fascista, punivano qualunque fatto diretto a menomare l’integrità o l’unità dello Stato, residuando oggi la rilevanza penale dei soli atti che, oltre ad essere diretti ed idonei a menomare l’integrità o l’unità dello Stato, siano anche atti violenti. In altre parole, dal 2006 gli atti diretti ed idonei a menomare l’integrità o l’unità dello Stato non sono penalmente rilevanti: lo diventano solo se sono anche atti violenti. Ciò rilevato, dica il Dottor Trabucco quali specifiche norme vieterebbero a chi di votare ad un Referendum per l’Indipendenza del Veneto, oppure quali altre vieterebbero a quale rappresentante eletto di chiedere ai Veneti di esprimersi consultivamente, e soprattutto quali sarebbero le conseguenze concrete in capo a questi soggetti.
Oltretutto, rimane da contestualizzare anche il portato dell’art. 10 Cost., il quale sancisce che l’ordinamento repubblicano italiano “si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”, tra le quali sicuramente vi sono le norme di diritto internazionale cogente, che sono valide erga omnes (CIG, 1995): l’art. 10 “costituzionalizza” in via diretta (cioè senza bisogno di strumenti interni di ratifica) tutte le norme di jus cogens internazionale, come il divieto di tortura, la proibizione della schiavitù e l’autodeterminazione dei popoli.
Ed infine, per quanto concerne il riferimento al 1866, il quale è richiamato anche in atti del Consiglio Regionale Veneto, desidero precisare che evidentemente il ricorso agli strumenti del già detto principio generale di autodeterminazione dei popoli farebbe scattare esattamente il corollario internazionale dell’uti possidetis juris, determinando l’esatto territorio odierno della Regione Veneto come “self-determination unit” (Crawford), a prescindere da considerazioni storiche di qualunque tipo: da qui il fatto che ogni riferimento alla normativa interna che preveda la dizione “popolo veneto” sia in realtà completamente irrilevante agli occhi del diritto internazionale, che si soddisfa in base al semplice predetto criterio dell’uti possidetis juris (in questo senso, anche Tancredi stesso). Tuttavia, mi piace poter aggiungere che i Veneti hanno una seconda via internazionale, che nessun altro popolo ha: il Trattato di Pace di Vienna del 1866. Infatti, il referendum territoriale tenutosi in Veneto nel 1866 per determinarne l’annessione al Regno d’Italia fu l’unico referendum tra quelli di annessione all’Italia ad essere contenuto in un Trattato internazionale ancora vigente, in base alla riserva di consultazione referendaria ivi contenuta.
Da ultimo, una postilla terminologica per il Dottor Trabucco: non v’è malintendimento nell’usare quasi intercambiabilmente i termini “indipendenza” e “secessione” in ambiente veneto. Molto semplicemente, l’indipendenza è il fine politico, la secessione il mezzo giuridico (in diritto internazionale). Ma d’altronde, quando la libertà diventa un problema da estirpare, anche la logica più pura e limpida può apparire mostruosamente capziosa.
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