Il fenomeno Huffington Post nasce nel 2005 dall’intuizione di Arianna Stassinopoulos, greca, figlia di un editore che, dopo essersi laureata in economia a Cambridge, si è trasferita negli Stati Uniti. Qui nel 1986 ha sposato Michael Huffington, politico di orientamento repubblicano, dal quale poi ha divorziato nel 1997, ma da cui ha ereditato il cognome che oggi è parte del titolo del primo megablog del mondo diventato una potenza rivoluzionaria nel giornalismo americano e globale.
Arianna Huffington, già prolifica autrice di biografie e libri di self-help, fa scorribande nel mondo della politica americana virando sempre più verso sinistra nel corso della sua carriera culminata con la candidatura da governatrice della California come indipendente nelle elezioni del 2003 (poi vinte da Arnold Schwarzenegger).
Il megablog eponimo nascerà poco dopo, quel poco che è bastato alla Huffington per diventare una delle donne più influenti e una delle personalità meglio connesse d’America. Fin dagli inizi, infatti, Huffington Post ha avuto puntati addosso gli occhi di tutti i lettori che già conoscevano Arianna e ha potuto fregiarsi della collaborazione di note firme amiche della giornalista e felici di partecipare all’impresa.
Proprio la partecipazione è poi diventata il vero motore dell’Huffington Post, alimentato da una solida community di bloggers rigorosamente non pagati e da un esercito di lettori/commentatori che hanno reso il sito uno delle piazze virtuali più dinamiche del mondo.
Nel marzo 2011 AOL compra Huffington Post per 315 milioni di dollari e nomina Arianna Huffington responsabile di tutta la produzione di contenuto editoriale. Da quel momento il sito prende una piega diversa: non più solo aggregatore di notizie altrui, non più solo megapiattaforma che si basa sulla produzione di contenuto gratuito da parte di volontari in cerca di notorietà, caratteristiche che pure restano centrali e che hanno costituito il fattore critico di sfida al cambiamento e all’evoluzione nel digitale per tutti i media tradizionali nel panorama americano.
Huffington Post diventa soprattutto vivaio di storie che altrove non trovano spazio per essere pubblicate, storie redatte da giornalisti illustri a cui vengono concessi il lusso del tempo necessario a svilupparle e la possibilità di affrontare e approfondire lo stesso tema tante volte quanto lo ritengono opportuno.
Mentre alla base della piramide i bloggers volontari continuano a postare e i redattori che riscrivono le storie altrui continuano a “curare“ i contenuti (curated content, è così che si chiama questo contenuto estrapolato e ottimizzato per i motori di ricerca), Arianna Huffington riempie il vertice con reporters di razza. È il caso, tra gli altri, di John Montorio, Tim O’Brien, Peter Goodman e Maura Egan, convinti ad abbandonare i loro cubicoli nelle redazioni più prestigiose del mondo con la promessa di totale libertà che nessuna redazione tradizionale, per quanto prestigiosa, riesce più a garantire nell’attuale economia. L’approccio è vincente: a confermarlo nello scorso aprile è stato anche un Premio Pulitzer vinto dal reporter David Wood per la sua serie di articoli sul ritorno alla vita civile dei militari americani mutilati in battaglia. La serie, intitolata “Beyond the Battlefield”, è stata sviluppata in 10 puntate a partire dal 10 ottobre 2011.
Nel frattempo, tra le polemiche e le resistenze, per restare nel mercato anche tutti gli altri imparano da Arianna Huffington come si fa il giornalismo dell’era digitale. Huffington Post diventa un brand talmente potente da riuscire ad espandere oltre i confini virtuali del web a stelle e strisce: Canada, Spagna, Francia e Regno Unito sono già state colonizzate.
Nel contesto dello statico mondo del giornalismo italiano, ancora così legato alla carta stampata, il banco di prova per l’Huffington Post tricolore sarà proprio quello dell’accettazione e della messa in pratica delle dinamiche della produzione di notizie per il digitale, che a tutt’oggi costituiscono una lingua ancora prevalentemente sconosciuta per la stampa nostrana.
Chissà che con l’aiuto di una maestra greco-americana non la si possa imparare.
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