A stabilirlo la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 14644 del 18 luglio 2016, che accoglie la domanda riconvenzionale di un avvocato e costringe il cliente al risarcimento danni.
Leggi qui la sentenza n. 14644/2016 della Corte di Cassazione
La domanda riconvenzionale e il risarcimento del danno all’immagine
L’avvocato era stato citato in giudizio dal suo cliente per responsabilità professionale presso il Tribunale di Chieti nel 2005. Il cliente sosteneva che l’avvocato fosse colpevole di non aver reiterato la richiesta di costituzione di parte civile in suo favore in un procedimento penale dinanzi alla Pretura di Rieti, e chiedeva 250mila euro di risarcimento danni. L’avvocato proponeva dunque a sua volta domanda riconvenzionale ex art. 96 c.p.c., primo comma chiedendo il risarcimento del danno all’immagine.
Tuttavia, la sentenza di primo grado aveva respinto entrambe le domande. La sentenza del Tribunale era allora stata impugnata presso la Corte d’Appello de L’Aquila. La Corte aveva respinto la domanda del cliente, stabilendo l’insussistenza di qualsiasi nesso causale tra la condotta del professionista e i danni che sarebbero derivati alla parte lesa.
I giudici d’appello avevano invece accolto la domanda dell’avvocato, stabilendo che l’azione contro il professionista fosse temeraria e foriera di danni all’immagine e condannando il ricorrente al pagamento di 10mila euro di risarcimento.
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Lite temeraria e danno all’immagine: la condanna
Era stato, quindi, proposto dal cliente un secondo ricorso in Cassazione, e l’avvocato aveva risposto con un controricorso. Con la sentenza n. 14644 del 18 luglio 2016, infine, la Suprema Corte ha deciso nuovamente in favore dell’avvocato.
Infatti, gli Ermellini hanno ritenuto che il ricorso fosse infondato e che non solo il cliente tentasse di denunciare un vizio di motivazione “senza efficacemente illustrare quali sarebbero le lacune motivazionali”, ma che il ricorrente non ha in alcun modo subito un pregiudizio a causa dell’operato del suo avvocato. Tanto più, prosegue la sentenza, che “l’inammissibilità della costituzione di parte civile non impediva in alcun modo” al cliente di introdurre un autonomo giudizio civile e la sentenza si era risolta in una definitiva assoluzione dell’imputato.
Le motivazioni dell’avvocato, ha stabilito la Suprema Corte, sono invece del tutto fondate: l’azione risarcitoria per responsabilità professionale “manifestamente infondata” può comportare nei confronti dell’avvocato “discredito professionale” nel suo ambito di lavoro.
La condanna ex art. 96 del codice di procedura civile, che definisce come responsabilità aggravata i casi in cui ” la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave “, appare quindi fondata.
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