Abolizione del valore legale della laurea: cui prodest?

Luigi Oliveri 30/01/12
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L’intenzione di eliminare il valore legale della laurea manifestato con insistenza dal Governo appare un passo decisivo per minare alla base il principio di autonomia del dipendente pubblico dalla politica.

Si tratterebbe di una vera e propria disapplicazione, sotto mentite spoglie, dell’articolo 98 della Costituzione, ai sensi del quale “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Vediamone le ragioni.

Chi si dice favorevole[1] all’eliminazione del valore legale della laurea, ritiene che gli aspetti positivi dell’idea sarebbero i seguenti:

a) ammettere, ad esempio, ai concorsi per la dirigenza pubblica anche lauree in storia, o arte o lettere, eccetera, accanto alle tradizionali di giurisprudenza, scienze politiche o economia consentirebbe di immettere saperi utili e diversificati che arricchirebbero il sistema pubblico;

b) il valore legale del titolo di studio attualmente fa sì che ogni laurea conferita da ciascuna delle università italiane abbia lo stesso “peso” per il “mercato” del lavoro pubblico. Pertanto, un datore di lavoro pubblico non può selezionare i suoi dipendenti in base al ranking dell’università di provenienza, come invece possono fare i privati, che in questo modo possono selezionare in modo efficiente i migliori, mentre nell’ambito pubblico c’è il rischio di assumere laureati non sempre qualificati.

Si tratta di ragionamenti oggettivamente aberranti, figli di una concezione del liberismo che sconfina senza troppi scrupolo nel classismo vero e proprio.

La prima idea, secondo la quale allargare ai concorsi pubblici per dirigente (ma, la laurea occorre anche per gli accessi al ruolo di funzionari e, dunque, si potrebbe estendere anche ai concorsi per funzionari la medesima concezione) è un vantaggio concreto perché consente di estendere i saperi presenti nella pubblica amministrazione è destituita di qualsiasi fondamento in radice.

In primo luogo, le amministrazioni, in particolare per i concorsi da dirigenti, posti nei quali non conta tanto e solo il sapere ed il saper fare connesso alla preparazione tecnica, quanto anche il saper essere e capacità organizzative, sono libere di stabilire quali tipologie di lauree ammettere per i concorsi. E da molto tempo si assiste a bandi aperti a lauree molto varie, sia nel campo scientifico, sia nel campo umanistico, letterario ed economico.

Occorre, tuttavia, senza ipocrisie, osservare come tutto questo non abbia giovato molto alla dirigenza pubblica e all’efficienza complessiva del sistema. Altrimenti, non si spiegherebbero le critiche che soprattutto i “liberisti” rivolgono a piene mani e senza soluzione di continuità alla “burocrazia” e alla pubblica amministrazione nel suo complesso.

In effetti, negli enti locali si è assistito al fiorire di “direttori generali” laureati anche in filosofia, psicologia, ingegneri. Il risultato è che il sistema degli enti locali non ha tratto il minimo giovamento né dalla figura del direttore generale in se e per se, né dalla presenza di queste competenze multidisciplinari, utili certamente per allargare lo spettro dei saperi, ma spesso refrattarie e non poco alle regole ferree dell’agire amministrativo, inconcepibili, ad esempio, per un sociologo.

Per gli organi di governo è risultato, tuttavia, assai utile mettere ai vertici dell’organizzazione soggetti con poca competenza ed esperienza non tanto delle nozioni e cognizioni giuridiche, quanto delle regole “eccentriche” del lavoro, degli appalti, dell’organizzazione pubblica: infatti, detti soggetti con lauree non specialistiche sono propensi ad avallare il continuo tentativo degli organi di governi di eludere vincoli e norme, alla luce della loro poca conoscenza di dette regole e norme e, comunque, della riluttanza a comprenderle ed attuarle.

Diminuire laureati in giurisprudenza, scienze politiche ed economia, a vantaggio di laureati in chimica, biologia, teologia, lettere, astrofisica può essere molto interessante, ma pericolosissimo, perché consente di inserire nei gangli pubblici persone cui manchi materialmente la base cognitiva per poter agire con la competenza e l’autonomia di giudizio richieste dalla Costituzione e portate, dunque, ad ascoltare solo la “voce del padrone”.

A meno che non si accompagnino alle selezioni pubbliche lunghi periodi di severo praticantato, nel corso dei quali i soggetti privi di lauree e di studi adeguati possano acquisire realmente sul campo competenze indispensabili per la loro attività.

In ogni caso, la prima argomentazione di favore all’eliminazione del valore legale della laurea si dimostra priva di fondamento.

Ma anche la seconda si dimostra non meno inaccettabile. Senza minimamente voler entrare nel merito dei sistemi, totalmente approssimativi, di valutazione dei ranking delle università, è perfettamente evidente che qualora si dovesse decidere di pesare il voto della laurea sulla base anche del “peso” valutativo dell’università che la conferisce, nel sistema “liberistico” che si immagina il ranking sarebbe fatto da soggetti privati. A pagamento.

Si attiverebbe, certo, una competizione tra università per eccellere e guadagnare posti in classifica. Ma, è del tutto chiaro che le possibilità economiche di ciascuna università e le possibilità di “condizionare” il “peso” della valutazione, con fattori esogeni alla sola qualità della cultura, sarebbero decisive. Se oggi valesse il criterio del ranking, con l’attuale presidente del Consiglio, come si potrebbe non assegnare alla Bocconi il vertice incontrastato nel ranking?

Le distorsioni, dunque, politiche-economiche-sociali a simili classifiche sarebbero immense, tali da falsare completamente il quadro.

Inoltre, risulterebbe ancora una volta di più compromesso il valore dell’autonomia dai partiti e dalle lobby che impiegati e dipendenti pubblici dovrebbero garantire, per agire con imparzialità nell’interesse della Nazione e non di alcune “parti”.

L’ingresso nelle università che si piazzassero ai vertici nel ranking sarebbe filtrato, non solo dai costi (tasse universitarie, costi di trasferta), ma anche dalle “entrature”. Si finirebbe per “fare parte” di un “sistema”, finalizzato a garantire ampia copertura dei posti strategici pubblici con soggetti provenienti da università selezionate, che tra i loro professori esprimono, poi, ministri, sottosegretari, parlamentari, vertici delle agenzie e grand commis di Stato. Sarebbe la fine definitiva dell’obiettivo di una dirigenza ed un apparato autonomo e non “collaterale” alla politica e agli affari.

Già nell’attuale regime è ben difficile garantire che la dirigenza da “apparato servente” non si riduca ad “apparato servile”. Con la bella idea dell’eliminazione del valore legale alla laurea ecco preparato un sistema classista che escluda possibilità di evoluzione per tutti i cittadini e che assicurerebbe solo a pochi eletti l’ingresso nelle università di èlite, viatico per l’accesso ai posti pubblici che contano.

Ma è proprio questo quello a cui si vuole arrivare? Serve questo per la crescita del Paese? Siamo proprio sicuri che il “privato” sappia scegliere poi così bene i propri lavoratori laurerati, pur non essendovi il vincolo del “valore legale”? I casi Cirio, Parmalat, San Raffaele, e tanti altri ancora non dicono proprio nulla?

In ultimo, i fautori dell’eliminazione del valore legale della laurea, che propongono algoritmi ed alchimie di ogni tipo per “ponderare” il peso del voto, forse non sanno o glissano sulla circostanza che da anni, proprio per superare il vincolo del voto di laurea, i concorsi pubblici per l’accesso alla dirigenza debbono svolgersi solo per esami, senza attribuire alcun valore ai titoli. Lo prevede, chiaro e tondo, l’articolo 28 del d.lgs 165/2001: “L’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e negli enti pubblici non economici avviene per concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione”.

Se, dunque, come troppo spesso accade, si espletano concorsi anche per titoli, nei quali si valuta il peso del voto della laurea si commette, semplicemente, una violazione di legge.

Il legislatore, saggiamente, ha radicalmente eliminato il problema, puntando su una severa selezione concorsuale. Sia ricordato, per inciso, che alla dirigenza si accede non solo in base alla laurea, ma anche con un’acclarata esperienza almeno quinquennale di servizio, a meno che non si utilizzino percorsi formativi specifici della Scuola superiore dell’amministrazione.

Visto quello che già l’ordinamento prevede per selezionare una dirigenza preparata, senza troppo peso al voto della laurea, il dibattito sull’abolizione del valore legale si mostra per quello che è: un’idea strumentale alla creazione di una dirigenza per nulla autonoma e “funzionale” alla politica ed ai poteri.


[1] P. Manzini, Perché cancellare il valore legale della laurea, in www.lavoce.info del 27 gennaio 2012.

Luigi Oliveri

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