Procedimento tributario: la motivazione dell’avviso di accertamento

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di Villani Maurizio e Pansardi Iolanda
L’Ufficio, nella indicazione degli elementi di valutazione a supporto del recupero a tassazione, ha fatto generico riferimento a rilevazioni di mercato, annunci pubblicitari e cessioni taxi nonché a studi sull’argomento e dati reperiti presso le associazioni di categoria senza tuttavia procedere nell’avviso all’allegazione o riproduzione di siffatti documenti.
E’ quanto ha affermato la Suprema Corte con la sentenza n. 15348 del 25 luglio 2016 la quale esprime un principio di diritto che in linea con quanto stabilito, secondo consolidato orientamento (Cass. 6914/2011) laddove “nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento”, ha ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento per mancata allegazione nell’avviso in questione degli atti in esso richiamati.

La nozione di motivazione

L’articolo 7 della Legge n.212/2000, pertanto, ha inteso assecondare e fare propria una nozione di motivazione, comprendente non solo le ragioni di diritto, ma anche i presupposti di fatto, e soprattutto, i passaggi logici che conducono dalle acquisizioni istruttorie alla decisione finale dell’Amministrazione.
Preliminarmente, giova sottolineare che il Legislatore, con l’approvazione della legge 27 luglio, n. 212 del 2000, contenente le disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente, ha inteso mettere ordine e venire incontro alle difficoltà interpretative in cui si imbatteva chiunque avesse a che fare con il complesso apparato normativo fiscale, composto da una molteplicità di fonti legislative e regolamentari.
Secondo quanto affermato, al primo comma, dell’articolo 1, le disposizioni dello Statuto, emanate in attuazione degli articoli 3, 23, 53, e 97 della Costituzione, “costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”.
Al riguardo, la Corte di Cassazione, con la fondamentale sentenza n. 17576 del 10/12/2002 e con la successiva sentenza del 14 aprile 2004, n. 7080, ha affermato che i principi espressi nelle disposizioni della legge n. 212/2000 o dalla stessa desumibili, hanno una rilevanza del tutto particolare nell’ambito della legislazione tributaria ed una sostanziale superiorità, quali norme primarie, rispetto alle altre disposizioni vigenti in materia.

La Suprema Corte, infatti, ha stabilito che le norme dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000) sull’interpretazione della legge e sull’affidamento e buona fede hanno valore generale; si tratta, a ben vedere, di norme che si pongono necessariamente in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti che disciplinano la materia fiscale, trattandosi di “clausole rafforzative”.

Lo Statuto dei diritti del contribuente

Lo Statuto ha la funzione di orientamento ermeneutico o applicativo vincolante nella interpretazione del diritto e qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria deve, attesa la superiorità assiologia dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto, essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi dello Statuto del contribuente.

A ben vedere, la suddetta sentenza si fonda sulla duplice considerazione che l’interpretazione conforme allo Statuto si risolve, in definitiva, nell’interpretazione conforme alle norme costituzionali richiamate (artt. 3, 23, 53 e 97), che lo Statuto stesso dichiara esplicitamente di attuare nell’ordinamento tributario.

I principi posti dalla legge n. 212/2000, quindi, proprio in quanto esplicitazioni generali, nella materia tributaria, delle richiamate norme costituzionali, debbono ritenersi “immanenti” nell’ordinamento stesso già prima dell’entrata in vigore dello Statuto e, quindi, vincolanti l’interprete in forza del canone ermeneutico della “interpretazione adeguatrice” a Costituzione: cioè, del dovere dell’interprete di preferire, nel dubbio, il significato e la portata della disposizione interpretata conformi a Costituzione.

In particolare, la  Suprema Corte sottolinea la necessità di distinguere, nell’ambito delle disposizioni tributarie , tra quelle espressive di principi già “immanenti” nel diritto o nell’ordinamento tributari e quelle che -pur dettate in attuazione delle predette norme costituzionali – presentano, invece, un contenuto totalmente o parzialmente innovativo rispetto allo stato della legislazione tributaria preesistente.

Tra le prime il Giudice di legittimità individua, certamente, l’articolo 7 della legge n. 212/2000 cit. rubricato: “chiarezza e motivazione degli atti”. Con la sentenza del 06/10/2006, n. 21513, poi, la Corte di Cassazione, proseguendo nella linea della propria giurisprudenza, segna un ulteriore passo avanti nella valorizzazione dello Statuto dei diritti del contribuente e dei suoi principi.

La Suprema Corte, infatti, sottolinea con forza che le norme dello Statuto dei diritti del contribuente sono norme di attuazione dei principi costituzionali fissati dagli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e, sono, quindi, “norme di rango costituzionale”, applicabili, in virtù dell’interpretazione adeguatrice, sia ai rapporti sorti prima dell’entrata in vigore della Legge n. 212/2000 cit., sia a rapporti fra contribuente ed ente impositore diverso dall’Amministrazione dello Stato, sia a elementi di imposizione diversi da sanzioni e interessi.

In quanto norme a valenza costituzionale perché attuative di principi costituzionali, le norme dello Statuto dei diritti del contribuente devono trovare diretta ed immediata applicazione in materia tributaria (in tal senso si è pronunciata la stessa Corte Costituzionale con l’ordinanza n.216 del 06/07/04) salva l’eventuale opportunità, valutata dal Giudice del merito, di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale in tutti i casi in cui una norma tributaria si ponga in contrasto con i principi stabiliti dalla legge n. 212/2000 in attuazione del dettato costituzionale.

Sul punto, la sentenza n. 21564 del 20 settembre 2013 della Suprema Corte ha stabilito: “L’obbligo di motivazione dell’atto impositivo persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa”. Nello stesso senso (Cass. n. 20211 del 3/9/2013; Cass. n. 04516 del 21/03/2012).

Quando si ha la motivazione per relationem?

Ora, la motivazione per relationem si ha quando chi la redige richiama un altro atto, collegato al primo, che in tal modo ne entra a far parte. Questo metodo di scrittura – che è nient’altro che un rimando, un richiamo a un atto esterno – consente di non appesantire il testo, evitando la riproduzione integrale o parziale dell’atto richiamato: si pensi all’avviso di liquidazione e rettifica basato su una perizia del Territorio o a un avviso di accertamento fondato anche sul processo verbale di constatazione.

Data la sua utilità, questa tecnica è molto diffusa in ogni pubblica amministrazione, compresa quella finanziaria, le quali assolvono all’obbligo di motivazione con maggior guadagno di tempo e, come dice la suprema Corte, con “economia di scrittura” (Cassazione 2780/2001, Cassazione 8690/2002), purché indichino in atto gli estremi identificativi del documento richiamato (Cassazione, sezioni unite 11722/2010).

Ciò posto, per tornare alla questione che qui interessa, l’omessa allegazione di cui sopra, risolvendosi in una ragione di invalidità formale del provvedimento adottato, impedisce al Giudicante di esaminare il merito della pretesa fiscale al fine di sostituire la propria valutazione estimativa (in ordine alla consistenza del presupposto d’imposta) a quella dell’Amministrazione (Cass. 25946/2015).

Ed infatti, il contribuente e il giudice, in sede di eventuale sindacato giurisdizionale, devono essere posti nella condizione di individuare i punti specifici di dove si trovano le parti a supporto della quantificazione del maggior imponibile indicata nella motivazione del provvedimento.

Procedimento tributario: la motivazione dell’avviso di accertamento

Ecco che, nel procedimento tributario la motivazione dell’avviso di accertamento assolve una pluralità di funzioni, tra cui vi è quella di garanzia del diritto di difesa del contribuente. Tale funzione è assolta di certo delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’Ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, ma, anche consentendo l’esplicazione di una corretta dialettica processuale.

Di talché, presuppone la salvaguardia anche dell’onere del contribuente di enunciare motivi di ricorso specifici a pena d’inammissibilità, mercé leggibili argomentazioni contrapposte a quelle fondanti la pretesa impositiva.

Tanto rilevato in sede di principio, deve considerarsi illegittimo un avviso di accertamento che richiama altri documenti non precisati né tanto meno allegati all’atto impositivo. È quanto ha disposto la Corte di cassazione civile – Sez. V – in occasione della sentenza 6 aprile 2016, n. 6636.

Nello specifico, l’onere di allegazione, posto a carico dell’Amministrazione finanziaria dal più volte richiamato art. 7, Legge n. 212/2000, dell’altro atto richiamato nella motivazione dell’avviso di accertamento si riferisce evidentemente agli atti che rappresentano la motivazione della pretesa tributaria che deve essere esplicitata nell’avviso di accertamento e non certo agli atti di carattere normativo o regolamentare; ovvero, gli atti generali come le delibere del consiglio comunale che legittimano il potere impositivo, e che sono comunque soggette a pubblicità legale e che sono quindi oggetto di conoscenza “legale” da parte del contribuente.

Ed allora va detto che riguardo ad un accertamento tributario motivato per relationem secondo la normativa vigente prima della entrata in vigore dell’art. 7, Legge n. 212/2000, si evince chiaramente come la legittimità dell’avviso di accertamento richiedeva (solo) la conoscenza o meglio la conoscibilità dell’atto da parte del contribuente, ove si trattasse di atto extratestuale.

In seguito, solo col regime introdotto dalla norma sopra richiamata (art. 7 della Legge n. 212/2000) l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere ottemperato anche per relationem; ovverosia, mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato, ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale.

Maurizio Villani

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