Riforma sulla funzione di controllo collaborativo: perché manca?

Luigi Oliveri 28/01/16
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Un solo parere esercitato nell’ambito del controllo “collaborativo” della Corte dei conti può contenere inconciliabili contraddizioni di metodo ed approccio giuridico?

Sì, ed ormai, nella pareristica delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, oltre che nell’ambito della Sezione Autonomie, è diventata pressoché una regola fissa.

Certo, le norme da interpretare si fanno ogni giorno più complesse ed involute, ma il ruolo di chi è chiamato alla funzione esegetica ha esondato, soprattutto perché non appaiono più chiare ed evidenti le finalità. Si dovrebbe trattare di leggere le norme in base a stretto diritto ed a fini chiari e predeterminati, dunque prevedibili.

La realtà va sempre più, invece, verso un diritto “creativo”, per altro non sempre alieno da atteggiamenti che possono apparire in qualche misura spinti dalla ragione dell’opportunità di non evidenziare chiavi di lettura troppo in contrasto con le suggestioni abilmente colte dai magistrati contabili (ma anche amministrativi) negli “ambienti di potere”.

Si prenda il caso della deliberazione 12 gennaio 2016, n. 3 della Sezione Toscana, che torna quasi sugli stessi passi e contenuti della deliberazione della Sezione Autonomie 19/2015, spinta da una serie di domande poste da un comune sostanzialmente riproponenti gli stessi quesiti affrontati dalla Sezione Autonomie: segno che ai comuni, finchè non trovino la parola, la virgola, l’accenno di proprio gradimento, non basta mai un pronunciamento, ma ne chiedono sempre uno in più. Segno, ulteriore, della rinuncia – assai discutibile e grave – delle figure addette alla funzione di garante della regolarità amministrativa a svolgere in via autonoma questa funzione e della tendenza (anche legata a ragioni di opportunità) ad “esternalizzare” una funzione che possa cagionare contrasti con chi incarica, valuta e può anche “lasciare a casa”.

Torniamo alla deliberazione 3/2016 della Sezione Toscana per guardarne l’incoerenza di approccio, rispetto ai temi svolti.

Un primo concerne la possibilità di attribuire incarichi dirigenziali in applicazione dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 in vigenza dei vincoli disposti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.

Ecco le considerazioni che svolge la Sezione. In primo luogo osserva: “l’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014 ha introdotto una disciplina speciale per le assunzioni a tempo indeterminato di regioni ed enti locali, derogatoria per gli anni 2015 e 2016 di quella generale, al fine di consentire la completa ricollocazione delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità, a seguito del processo di riforma di cui alla l. n. 56/2014”. Si tratta di una chiave di lettura squisitamente teleologica: la Sezione individua chiaramente il fine della norma: la “completa ricollocazione” dei soprannumerari.

Coerenza vorrebbe, quindi, che la lettura ulteriore del comma 424 insistesse su questa medesima linea: se la ricollocazione deve essere completa, significa che lo scopo del comma 424 è lasciare libere le disponibilità delle dotazioni organiche alle mobilità dei dipendenti ed anche di dirigenti.

La premessa logica, che la Sezione Toscana (come del resto la Sezione Autonomie sul cui parere 19/2015 si appiattisce) nemmeno affronta è che le assunzioni di dirigenti a contratto ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000, a differenza di qualsiasi altra assunzione a tempo determinato, coprono posti della dotazione organica; ergo, sottraggono posti alla ricollocazione.

Sul piano finalistico, dunque, articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 e articolo 110 del d.lgs 267/2000 non si tengono, anzi sono in evidentissimo ed insanabile contrasto (ovviamente, finchè vi saranno dipendenti con qualifica dirigenziale in sovrannumero).

Come prosegue, però, la Sezione Toscana? Con una lettura (certo, imposta dalla nomofilachia della Sezione Autonomie) che vira improvvisamente verso un’interpretazione strettamente letterale: “La Sezione delle autonomie ha dunque ritenuto che le due fattispecie delle assunzioni a tempo determinato e del conferimento di incarichi dirigenziali ex art. 110, comma 1, TUEL, esulino dal campo di applicazione del comma 424, e restino pertanto assoggettate ai divieti e limiti propri degli specifici istituti che le disciplinano. Conformemente a tale indirizzo si è già espressa questa Sezione con deliberazione 20 ottobre 2015, n. 447”.

L’incoerenza è chiarissima e, oggettivamente, né condivisibile, né accettabile. Non appare corretto trattare un tema con due approcci antitetici. Soprattutto laddove quest’ultimo passaggio rivela la consapevolezza che le fattispecie del tempo determinato e dell’articolo 110 sono “due”, dunque distinte. L’interpretazione teleologica è di livello superiore a quella letterale, quando questa non è in grado da sola di abbracciare e risolvere i vari problemi posti dalla norma, come è noto a tutti gli operatori del diritto. Sicchè, lo sguardo all’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 limitato alla sola indicazione letterale è erroneo se questa non sia in grado di risolvere il problema della limitazione della salvaguardia dei dirigenti in sovrannumero, derivante dalla supposta – ma inesistente – legittimità di assunzioni ex articolo 110 che ha proprio l’effetto di impedire o rendere molto più complicata la ricollocazione dei soprannumerari.

Eppure, le Sezioni della Corte dei conti si segnalano costantemente per interpretazioni che vanno ben oltre il limite di quella letterale: celeberrime sono le pronunce sui vincoli alle “assunzioni”, secondo le quali sarebbero da considerare tali non solo istituti che implicano la costituzione di rapporti di lavoro subordinato tra enti e dipendenti, ma anche fattispecie totalmente estranee a tali schemi sostanziali, come il convenzionamento a scavalco tra enti, più volte considerato dalle Sezioni illecito se realizzato da un ente che abbia violato il patto di stabilità.

Come si nota, non manca certo autorevolezza e forza, alla magistratura contabile, per prodursi in letture prater legem, specie se lo scopo sia la salvaguardia della finanza pubblica.

Quel che è strano, allora, è la mancanza esattamente di questo approccio nell’esame della questione dell’articolo 110. Appare francamente molto difficile da accettare l’ammissibilità di contratti a termine dirigenziali a copertura di posti della dotazione organica, in presenza di una condizione straordinaria di soprannumerari di qualifica dirigenziale, che potrebbe rimediare a situazioni di carenza organica delle amministrazioni senza implicare nemmeno un euro di maggior costo alle finanze pubbliche. Invece, la Corte dei conti (con l’eccezione condivisibile della Sezione Piemonte) accetta che possa darsi corso ad assunzioni che da un lato sottraggono possibilità di ricollocazione (in contrasto coi fini della norma, pur enunciati e, dunque riconosciuti), dall’altro implicano maggiore spesa pubblica!

Sorge necessariamente la curiosità in merito alla ratio che induca la Sezione Toscana (e abbia indotto prima ancora la Sezione Autonomie) verso una soluzione talmente discutibile e fondata su letture così incoerenti e deboli.

Di certo, è chiaro a tutti, così come alla Corte dei conti, che ai sindaci è molto gradito poter cooptare direttamente dirigenti di proprio gradimento. Pareri, dunque, che non si pongano troppo in rotta con una chiara evidenza dell’apprezzamento della cooptazione diretta di dirigenti particolarmente vicini alla politica sono, oggettivamente, meglio in grado di garantire e mantenere “armonia” tra magistratura contabile e centri di potere.

Sul piano sostanziale il parere della Sezione Toscana, come quello della Sezione Autonomie, espone ogni assunzione con l’articolo 110 alla declaratoria di nullità da parte di qualsiasi giudice ordinario, al quale si rivolga qualche dirigente che all’1.1.2017 resti non ricollocato, anche a causa dei cancelli sbarrati alla propria ricollocazione, legata alla mancata disponibilità di posti dirigenziali, coperti con le cooptazioni.

Sul piano della funzionalità al sistema, questo parerere è solo esemplificativo di tantissimi altri, che disinvoltamente ampliano il raggio della lettura, o lo restringono, in base a percorsi per nulla lineari.

Una revisione della funzione di controllo collaborativo si impone, forse più ancora di altre “riforme epocali” che, invece, sono all’ordine del giorno.

Se il legislatore è caotico, la ridda di pareri resi in modo incoerente è ormai eccessiva. Sarebbe opportuno che i controlli tornassero ad essere resi non dal potere giudiziario, ma da autorità amministrative di controllo, anche per poter consentire di ricorrere in via amministrativa sugli esiti dei controlli stessi.

Appare piuttosto curioso, per altro, che tutta la ricostruzione relativa alla dirigenza a contratto si fondi su un altro aspetto inusitato: il “non luogo a deliberare” disposto sul tema dalla Sezione Autonomie.

La quale, in sintesi, sul tema ha di fatto rinunciato ad esprimersi, attraverso l’istituto del “non luogo a deliberare” invero non disciplinato da nessuna norma, ma ha premesso al non luogo a deliberare un’esposizione interpretativa, che fornisce poi modo per affermare che l’articolo 110 non sarebbe inciso dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Anche in questo caso, coerenza e linearità dell’operato dell’autorità di controllo non appaiono particolarmente evidenti.

Lo scopo del parere di meglio “illuminare” l’azione di amministrazione attiva, in tal modo pare rendersi evanescente. I pareri finiscono per essere quasi fine a se stessi o esposti al dubbio che possano essere anche solo indirettamente influenzati da altri fini.

Una funzione di controllo sulla ricollocazione avrebbe dovuto esserci, ma molto diversa e certamente più penetrante, tale da scandagliare ogni ipotesi di elusione delle norme: e ce ne sono state tante, tra le quali quella dell’articolo 110 è solo la più eclatante. Il DM 14 settembre 2015 dimostra che il Governo ha avuto chiara questa esigenza, laddove all’articolo 11, comma 2, ha assegnato ai prefetti il compito di vigilare sul rispetto del divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato previsto dall’articolo 1, commi 424 e 425, a pena di nullità. L’errore è consistito e consiste nell’individuare, per un verso, un’autorità come i prefetti non strutturata per svolgere questo tipo di verifiche e, soprattutto, nel non introdurre un sistema di controlli preventivi rispetto alle assunzioni, sì da esporre il sistema ad un contenzioso dai confini oggi non immaginabili e che dipenderà da quanti dipendenti si ritroveranno in disponibilità a partire dall’1.1.2017.

Un insieme di riforme davvero intese a far cambiare la rotta dovrebbe prendere definitivamente atto che i controlli “collaborativi” hanno nella sostanza fallito. Non sono obbligatori, non condizionano l’efficacia dei provvedimenti, non si inseriscono nelle fasi procedimentali, contengono troppe contraddizioni tra essi e all’interno di ciascuno di essi, non sono ricorribili, sicchè restano fisse le loro conclusioni, anche quando visibilmente affette da vizi logici e giuridici.

Tornare ai veri e propri controlli preventivi apparirebbe una vera e seria riforma. Certo, sarebbe un rispolverare l’antico. Ma, questo deriva dalla circostanza dell’illusione che riformare per riformare sia il “moderno”. Una riforma è realmente “epocale” non perché ampia o perché semplifica o perché cambia radicalmente un insieme di istituti, bensì se è utile. Tra i decreti legislativi approvati di recente dal Governo, quello relativo alla razionalizzazione delle società pubbliche reintroduce i controlli preventivi, proprio allo scopo di far sì che le decisioni degli enti locali di costituire nuove società siano passate ad un approfondito vaglio prima che determinino i loro effetti, evitando le tantissime elusioni e violazioni alle norme sul tema, prodottesi negli ultimi 15 anni. Una strada, finalmente corretta, anche se sconta il problema di affidare detti controlli ancora una volta non ad un’autorità amministrativa, ma ad un giudice e, nel caso di specie, proprio la Corte dei conti, lasciando aperti alcuni problemi operativi, quale, soprattutto, quello della possibilità di ricorrere al Tar su pronunce di organi giurisdizionali indipendenti.

Si tratta di un segnale, forse troppo sporadico, comunque importante. Anche la disciplina dell’anticorruzione, come dettata dall’Anac nei suoi piani nazionali, rivela l’imprescindibilità di ridare spinta e forza ai controlli preventivi.

Nel caso specifico degli incarichi dirigenziali, sarebbe altamente necessario che controlli preventivi verificassero la legittimità di incarichi a contratto quando sarà a regime la riforma indicata dalla legge 124/2015. E’ fortissimo il rischio che dirigenti di ruolo restino privi di incarico, pagati inutilmente per un determinato lasso di tempo ed esposti al licenziamento (oltre che al condizionamento pesantissimo della politica), anche proprio per la copertura disinvolta di posti di ruolo mediante incarichi a contratto.

Il presupposto sia dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000, sia dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, per attribuire incarichi dirigenziali, è l’assenza di professionalità nell’ente. Ma, per effetto della riforma, non vi saranno più dotazioni organiche degli enti: i dirigenti apparterranno a ruoli unici nazionali. Sarà ben difficile, se non impossibile, dimostrare l’assenza di professionalità negli albi.

Occorreranno, allora, soggetti capaci di un controllo effettivo, coerente e sostanziale sugli atti di incarico a dirigenti esterni, e, soprattutto, non condizionati in alcun modo dal privilegio che gli organi di governo intendono dare al sistema della cooptazione. I pareri troppo timidi della Corte dei conti sull’articolo 110 dimostrano che la strada da seguire non può essere quella oggi costruita.

Luigi Oliveri

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