I risvolti costituzionali del diritto penale dell’ambiente in rapporto al principio di offensività del reato con particolare riferimento ai reati previsti dal decreto legislativo 152/06

Luca Serra 22/04/15
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La normativa ambientale risulta, oggi, dispersa in una moltitudine di disposizioni extra codicem, il cui accavallarsi rende confusa ed incerta la trattazione dell’argomento.
La legislazione italiana, al riguardo, fa derivare i propri dettati dalle normative comunitarie, in particolare due: la direttiva 2004/35 /CE e la direttiva 2008/99/CE.

Uno dei temi più discussi in materia rimane certamente quello dei rapporti tra “diritto penale dell’ambiente e principio di offensività del reato”. Bisogna, innanzitutto, partire dalla nozione di “ambiente”, per cui se ne possono rinvenire due accezioni, una ampia e una ristretta. Per la prima, con ambiente si intende “il complesso delle condizioni sociali, culturali e morali nel quale l’essere umano si trova, si forma e si sviluppa, risultando così unico il bene giuridico protetto; per la seconda, per ambiente si intendono “gli elementi fondamentali della biosfera (acqua, aria, suolo) tutelati in quanto realtà biotiche complesse”; viene, pertanto, protetto l’ecosistema. Maggiormente convincente sembra essere la prima nozione che, tra l’altro, viene ricavata dall’art. 5 lett. C del d. lgs. n. 152/06, laddove si esplicita chiaramente la nozione di impatto ambientale come “l’alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturali, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti”.

Volendo inquadrare, successivamente, il bene giuridico protetto dal diritto penale ambientale si devono esaminare due concezioni contrapposte: quella unitaria secondo la quale, nonostante le diverse oggettività giuridiche (acqua, aria, suolo) o i diversi fenomeni (smaltimento rifiuti) cui, di volta in volta, si riferiscono, le norme ambientali, in realtà, sarebbero tutte indirizzate alla tutela di un unico bene giuridico, l’ambiente, da intendersi come entità comprensiva di tutto ciò che configura l’habitat di vita dell’Uomo; quella pluralistica, secondo la quale, l’insieme normativo in materia ambientale andrebbe interpretato come una somma di tutele fra loro diverse quanto ad oggetto. In realtà, l’ultima concezione pare meglio esplicitare le esigenze di tutela. Inoltre, il legislatore, in materia ambientale, non si è lasciato suggestionare da una concezione “ecocentrica”, ma da una più tradizionale “antropocentrica”, ossia quell’idea che concepisce l’equilibrio ecologico delle acque, dell’aria e del suolo non come entità in sé meritevole di protezione, ma solo in quanto risorsa utile a soddisfare bisogni umani sempre diversi.
Nell’ambito della tutela dei beni ambientali, vanno senz’altro ricompresi il paesaggio e le bellezze naturali, la salute pubblica e l’igiene dei luoghi e l’integrità del territorio. Se pur variamente strutturati, gli illeciti ambientali sono comunque tutti, o quasi tutti, riconducibili alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto. Di qui, sono state sollevate una serie di eccezioni di incostituzionalità che la Corte costituzionale ha prontamente respinto, fornendo alcune indicazioni operative; infatti, anche con riferimento ai reati di pericolo presunto, la Corte riconosce al principio di offensività un duplice livello di operatività: intanto una condotta è punibile, in quanto risulti oggettivamente pericolosa per un bene giuridico oppure realizzi nella situazione concreta il pericolo prospettato in astratto dal legislatore ed incorporato nel fatto descritto dalla norma incriminatrice. Pertanto, una volta riaffermato il fondamento costituzionale di tale principio, la Corte ribadisce che al giudice sia riservata, sempre e comunque, una valutazione della “pericolosità in concreto” e che come tale valutazione vada comunque ricondotta alla più generale valutazione di tipicità del fatto storico. Inoltre, ad un’attenta analisi costituzionale, si rileva subito come manchi una definizione esplicita di “ambiente”. Ciò, però, non esclude che a seguito di una lettura sistematica di un insieme di differenti disposizioni costituzionali si possa trovare una traccia ben distinta della materia ambientale.

Partendo dagli artt. 2, 3, 5 emerge la tutela dell’ambiente come sede di partecipazione; l’art. 9 ci parla di ambiente come insieme degli ambienti naturali, culturali, storici, paesaggistici ed artistici; c’è poi l’art. 32 che intende l’ambiente come spazio salubre; gli artt. 33 e 34 che l’intendono come base per l’apprendimento e lo sviluppo dell’arte e della scienza. In definitiva, l’ambiente è un bene giuridico degno di protezione normativa autonoma, in quanto è riconosciuto e tutelato da norme di rango costituzionale ed è, quindi, assurto a diritto fondamentale del nostro ordinamento.
Come precedentemente detto, la legislazione penale italiana in materia ambientale è affidata a norme speciali che, fatta eccezione per gli artt. 260 e 258, co. 4 del d. lgs. n. 152/06, prevedono solo fattispecie contravvenzionali punite con la pena pecuniaria dell’ammenda in alternativa o congiunta alla pena detentiva dell’arresto. Inoltre, tale legislazione è incentrata prevalentemente sul ricorso a fattispecie di pericolo astratto e prevede un solo reato di danno: l’art. 257 del d. lgs. n. 152/06.
I reati ambientali, pertanto, sono catalogati in fattispecie strutturate in differenti forme: dal reato permanente al reato istantaneo, dal reato istantaneo ad effetti permanenti al reato abituale. Il reato permanente si realizza allorquando l’autore del fatto, con il suo comportamento antigiuridico, crea la situazione di illiceità, la quale si protrae fino a quando il medesimo desiste dal proprio comportamento. Si ha, invece, reato istantaneo laddove il soggetto agente, mediante una propria azione od omissione, realizzi la situazione antigiuridica, la quale potrà dirsi completamente conclusa in quel determinato istante; tale reato potrà, poi, vedere protratte le proprie conseguenze dannose per un periodo ulteriore rispetto alla commissione del fatto-reato ed allora si realizzerà la figura del reato istantaneo ad effetti permanenti. Il reato abituale, infine, si verifica nel caso in cui sia richiesto per il suo perfezionamento la reiterazione di più atti tipici in un arco temporale possibilmente contenuto.

Per quanto riguarda la disciplina penale più problematica e più interessante in materia ambientale, ci dobbiamo senza dubbio riferire alla disciplina sui rifiuti, ossia al d. lgs. n. 152/06. La nozione di rifiuto, oggi, si deve ricavare dal correttivo al d. lgs. n. 152/06, ossia dal d. l. n. 205/2010, laddove si stabilisce che è rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”. Gli articoli maggiormente significativi sono l’art. 256 e l’art. 260 del d. lgs. n. 152/06. Il primo punisce al comma 2 l’abbandono, il deposito incontrollato e l’immissioni di rifiuti: la condotta di abbandono consiste in una dismissione definitiva del rifiuto; il deposito incontrollato integra una situazione di temporaneo ammasso del materiale con modalità irregolari, con rifiuti accantonati senza alcun criterio di sistemazione o di separazione; per immissione deve intendersi, invece, il rilascio episodico di qualsiasi rifiuto sia solido che liquido. Tale reato è commissivo istantaneo e la sua consumazione coincide con l’abusivo scarico, deposito o immissione di rifiuti.
I reati previsti dal comma 1 dell’art. 256 sono di pericolo presunto, poiché per la loro integrazione non occorre né l’effettiva lesione del bene protetto né la sua concreta messa in pericolo; sono reati formali, di mera condotta e permanenti.
Il reato di cui all’art. 260, invece, è caratterizzato dalla necessaria esistenza di una struttura organizzata che giustifica la più severa penalizzazione del fatto alla luce del grave allarme sociale connaturato proprio alla creazione di tale struttura organizzata. Il bene giuridico protetto dalla norma, deve essere rinvenuto nella tutela della pubblica incolumità da interpretarsi alla luce della protezione ambientale. Inoltre, la locuzione “attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate” sembra avvicinare molto tale delitto a quello di cui all’art. 416 c.p. in cui rileva proprio l’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima e rudimentale, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira. Esistono, tuttavia, differenze tra i due delitti: l’art. 260 è un reato formale, mono soggettivo e non a concorso necessario e, quindi, non occorre neppure che alla base della struttura organizzativa vi sia un accordo tra più persone finalizzato all’ attuazione di un determinato programma delittuoso ben potendo, il delitto in esame, esaurirsi in occasione del conseguimento del profitto ricavabile da specifiche campagne di gestione abusiva di rifiuti. Ancora, nel delitto ambientale non c’è bisogno del “pactum sceleris”, bensì è necessaria soltanto la realizzazione di una pluralità di operazioni, almeno due. Quindi, si può parlare di reato abituale a formazione progressiva. Affinché la pluralità delle operazioni assuma rilevanza per integrare lo schema criminoso del delitto in oggetto, occorre che siano stati gestiti “ingenti quantitativi di rifiuti”.

Tale nozione è abbastanza vaga e finisce per essere rimessa alla discrezionalità del giudice. Il reato è punibile, poi, a titolo di dolo specifico, in quanto la norma richiede il fine di conseguire un “profitto ingiusto”: esso non deve essere necessariamente un ricavo patrimoniale ben potendo lo stesso essere integrato dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura. Per la configurabilità del reato non è richiesta una pluralità di soggetti agenti trattandosi di fattispecie mono soggettiva. È, però, ammesso il concorso di più persone nel delitto, situazione che comunque suscita qualche problema. È noto che per affermare la responsabilità di un soggetto a titolo di concorso in un delitto doloso, è sufficiente che lo stesso abbia apportato un contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione del reato; inoltre, è necessario un atteggiamento psicologico che deve sostanziarsi nella coscienza e volontà di concorrere con altri soggetti. Orbene, complessa è l’ipotesi del caso in cui le varie condotte incriminate siano divise tra vari soggetti. Premessa, infatti, la qualificazione come reato abituale, il concorso di più soggetti richiederebbe la partecipazione di ciascuno a tutti gli episodi richiesti per la realizzazione della serie minima. Il che potrebbe risultare difficile in concreto. Inoltre, nella descrizione del fatto tipico, la predisposizione dell’organizzazione deve per forza precedere il compimento delle plurime operazioni di gestione abusiva dei rifiuti: è palese, infatti, che l’effettuazione di queste ultime, senza la già allestita struttura organizzativa, non potrebbe rientrare nella fattispecie di cui trattasi, ma in quella contravvenzionale dell’art. 256. Ecco, allora, che ai fini della realizzazione della compartecipazione criminosa non è richiesto il previo concerto fra tutti i partecipanti, ma è indispensabile un individuale apporto materiale verso l’evento perseguito da tutti, con la consapevolezza della partecipazione altrui. Pertanto, in accordo con la Cassazione la dottrina ritiene che non occorra la prova di un previo concerto tra tutti i concorrenti, ma sia comunque necessario che ciascuno dei concorrenti abbia agito per una finalità unitaria, con la consapevolezza del ruolo svolto dagli altri e con la volontà di agire in comune.

Luca Serra

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