Il progresso nella giustizia e il ricorso all’arbitrato

Beatrice Dalia 23/01/15
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In un articolo sul quotidiano Il Sole 24 Ore di qualche anno fa, dal titolo «Inquieto vivere», provai a immaginare lo scenario di quotidiana bellicosità che riguarda un aspetto fondamentale della serenità umana: la vita in condominio. Ripercorrendo la giurisprudenza di Cassazione, tentai di stilare un elenco di ciò che si può o non si può fare all’interno di quel nucleo fondamentale di socialità costituito dalla comunità di persone chiamate a condividere spazi, beni e abitudini.

Il presente articolo è firmato da Beatrice Dalia, avvocato, mediatrice familiare e giudice arbitro televisivo della trasmissione «Forum».  Il brano è tratto dalla sua prefazione al volume di Andrea Sirotti Gaudenzi Procedimento arbitrale e rapporti con il processo civile dopo la Legge 162/2014″ (Maggioli, 2015) NdR

Altro che zerbini con la scritta «benvenuto»! Il quadro che ne venne fuori fu di elevata litigiosità e, se vogliamo, permalosità sociale. All’interno della quale i singoli, trincerati dietro quegli zerbini e le relative porte d’ingresso, manifestavano sempre più intransigenza verso i bisogni e i problemi altrui, aspettandosi – per converso – la massima comprensione e tolleranza per sé. Lo scenario, a distanza di tempo, non appare certo diverso. Anzi. Non a caso, proprio in materia di condominio, il Legislatore ha reso obbligatoria la mediazione civile, sperando di riuscire a svuotare i tribunali di quelle beghe che appesantiscono la magistratura togata, a danno dei tempi e, purtroppo, della “qualità” della Giustizia.

Come giornalista giuridica ho provato a darmi una spiegazione per questa involuzione della conflittualità. Del perché, cioè, si sia passati dal «guarda che ti faccio causa!» come minaccia – estrema ma effi cace – in caso di possibili vulnus ai propri interessi o diritti, al più sfacciato «e fammi causa se vuoi!» come risposta ironica e provocatoria di chi, non avendo più alcuna fiducia nel sistema, pensa di avere ottime speranze di non essere chiamato, almeno in questa vita, a rendere conto di un abuso o di una scorrettezza.

La risposta che mi sono data, per quanto abbastanza plausibile, è forse la meno piacevole da ascoltare: il progresso. La graduale alfabetizzazione giuridica del cittadino medio lo ha reso sempre più edotto dei propri diritti (forse un po’ meno dei propri doveri), attraverso una sorta di diffusione mediatica di giustizia take away. Le sentenze dei giudici di ogni grado sono divenute involontarie dispensatrici di princìpi assoluti non sempre effettivamente espressi, a volte decontestualizzati, sovente fraintesi. Con il risultato di ingenerare nei singoli il convincimento che davvero ogni minima offesa, ogni screzio, ogni propria insofferenza sia degna di considerazione collettiva, di spesa pubblica, di coinvolgimento statale; meriti dunque la somma punizione di un processo.

In pratica, le conseguenze del passaggio dei temi giuridici dalle pagine di cronaca giudiziaria o di commento a quelle di «costume e società». Quel costume e quella società di cui il tribunale televisivo per eccellenza, Forum, è stato specchio ma anche testimone per trent’anni, con il merito – però – di far conoscere i pregi dell’arbitrato irrituale come alternativa rapida ed effi cace alla via
giudiziaria quando ancora le ADR erano una sigla curiosa nell’immaginario collettivo. Oggi il merito “didattico” del programma televisivo è un altro: la crisi dei rapporti ha imposto un’attenzione ai temi del diritto di famiglia, alla mediazione familiare, alla bigenitorialità, assestandosi su una forma di court show che, spesso, inevitabilmente si allontana dalla storica formula
dell’arbitrato.

Probabilmente perché se trent’anni fa era necessario instillare la cultura del metodo alternativo al processo, oggi è il tempo di viverlo nella pratica. È il tempo di una nuova responsabilità nella soluzione delle controversie che passa per un’assunzione in prima persona del confl itto. È un’esigenza che anche il Legislatore mostra di aver colto nella sua impellenza, predisponendo un ventaglio di sistemi defl ativi nuovi e potenziando quelli esistenti. In primis, appunto, l’arbitrato.

I dati sugli «arbitrati amministrati» non sono incoraggianti. Solo 743 domande per il 2013, in lieve diminuzione rispetto all’anno prima (781); malgrado le camere arbitrali siano cresciute. La maggior parte degli arbitrati è nazionale e le parti sono per lo più imprese; anche perché il grosso della materie oggetto di arbitrato riguarda societario, appalto, commercio e immobiliare.

Ma il sistema è pronto, l’istituto è rodato. Si tratta ora di percepirlo come una vera alternativa in tutte le vicende riguardanti diritti disponibili. In questo testo, scritto con una chiarezza incisiva che nulla toglie alla precisione tecnica, l’istituto viene analizzato nella sua storia, nel presente del suo ambito applicativo e nel futuro delle sue potenzialità. La penna dell’amico Andrea Sirotti Gaudenzi tradisce però una passione, pari alla competenza, che personalmente rende ancor più godibile il testo, per quella comunanza di idee e di sentire rispetto a ciò che – ponendosi come alternativo al processo – contribuisce alla qualità della giustizia, o meglio alla qualità della vita di chi ha un problema di giustizia.

Mi piace molto l’espressione «giustizia privata»; perché non siamo davanti all’abuso di chi, sfiduciato dai rimedi apprestati dall’ordinamento, reagisce in maniera scomposta. Siamo davanti alla virtù di chi sceglie consapevolmente altre strade tracciate dall’ordinamento, alla ricerca di una soluzione che gli appartenga, perché scelta.

 

Beatrice Dalia

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