Riforma della PA nell’interesse dei cittadini o della politica?

Luigi Oliveri 17/07/14
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Il sottosegretario alla Funzione Pubblica Angelo Rughetti in un’intervista al Corriere del 14 luglio 2014 sintetizza benissimo tutti i punti velleitari e negativi di una riforma della Pubblica Amministrazione che si conferma inutile e dannosa.

Il primo e principale aspetto riguarda, ovviamente, la riforma della dirigenza. L’intervistatrice ha fatto passare senza la minima obiezione alcuni concetti espressi da Rughetti, che rivelano chiarissimamente il disegno di asservimento della dirigenza alla politica.

Il sottosegretario parte da una premessa: secondo il suo avviso nella pubblica amministrazione vi sarebbero troppi dirigenti e troppo anziani.

Un’indicazione non dimostrata, che comprova, purtroppo, come anche chi sta ai vertici dell’organizzazione dello Stato finga di ignorare, o peggio ignori, la realtà e si affidi alle sommarie inchieste dei giornali che fanno erroneamente di tutta l’erba un fascio, lanciando scandalistiche grida sulla presenza di 200.000 dirigenti nella PA. Mischiando, però, generali e magistrati e, soprattutto i circa 120.000 medici, tutti con qualifica dirigenziale anche se non hanno compiti di gestione. In realtà, i dirigenti veri e propri, con compiti gestionali e manageriali non arrivano ad essere 50.000.

Ma, considerando anche corrette le indicazioni di Rughetti, salta all’occhio un’immediata contraddizione, quando, alla domanda in merito all’allargamento negli enti locali della dirigenza a contratto dal 10% al 30% della dotazione organica. Il sottosegretario risponde che “La norma serve a superare la fase transitoria del blocco delle assunzioni. Quando tutto andrà a regime, la chiamata esterna sarà l’eccezione”.

Ovviamente, la giornalista non ha eccepito nulla. Eppure questa affermazione singolare di Rughetti presta il fianco a numerose critiche. La prima: se si afferma che i dirigenti pubblici sono troppi, non è palesemente contraddittorio introdurre una norma volta a superare il blocco delle assunzioni, per assumere altri dirigenti? Laddove vi sia un esubero, vero o presunto, di dipendenti, qualsiasi azienda inizia il taglio dai posti di lavoro a tempo determinato: non è conosciuto in natura il fenomeno dell’incremento della qualifica in esubero mediante assunzioni flessibili.

In secondo luogo, l’affermazione davvero avventata di Rughetti è la confessione di uno sfacciato aggiramento delle norme. La pubblica amministrazione è soggetta a rigorosi vincoli al turn-over per tenere sotto controllo la spesa del personale. E’ noto, e il Governo continua a dirlo a ogni piè sospinto a proposito della inesistente “staffetta generazionale” di cui continua a parlare, che la dirigenza costa di più. Ma, se si introduce una norma che estende di 3 volte tanto la possibilità di assumere dirigenti, svicolando dal blocco delle assunzioni, le risorse, poche, che si sbloccherebbero verrebbero destinate non al rafforzamento della struttura, ma alla creazione di un apparato dirigenziale “di fiducia”, funzionale alla politica.

Ancora, l’intervistatrice non ha avuto la capacità, e forse conoscenza, per obiettare che la Corte costituzionale ha ripetutamente considerato incostituzionali leggi regionali finalizzate a portare appunto al 30% della dotazione organica il numero dei dirigenti assunti a contratto e senza concorso, per irragionevole violazione del principio del concorso pubblico, posto dall’articolo 97 della Costituzione: perché la norma contenuta nella riforma della pubblica amministrazione dovrebbe essere costituzionale?

Insomma, pare evidente a chiunque l’aggiramento dei più evidenti e fondamentali principi normativi. Così come dovrebbe risultare chiaro che la dichiarazione del sottosegretario, in evidente contrasto con le premesse, è solo un giro di parole, per nascondere appunto l’intento di creare una dirigenza politicizzata.

Cosa confermata, del resto, dall’ulteriore passaggio dell’intervista circa la licenziabilità dei dirigenti pubblici. Il sottosegretario risponde: “Non parlerei di licenziamento: dopo 2 anni se non avrà ricevuto nessun incarico dalla commissione, perché lo Stato dovrebbe ancora pagarlo?”.

Benissimo. Non chiamiamolo licenziamento. I problemi in Italia, come noto, si risolvono cambiando il nome alle cose, oppure, nel caso, ad esempio, degli inquinamenti, elevando la soglia di tolleranza alle sostanze nocive.

Il nodo vero di questo modo di intendere la dirigenza è uno solo: per quale ragione dovrebbero esservi nei ruoli dirigenziali dirigenti privi di incarico? Che senso ha, come appunto afferma Rughetti, pagare per due anni un dirigente che non lavora?

Ma come si fa ad ammettere la possibilità astratta che nei ruoli pubblici possano stare dirigenti che per lunghi periodi non svolgano il loro lavoro? Come si fa a non vedere che l’innalzamento (incostituzionale) del numero dei dirigenti reclutati dall’esterno (o anche promossi sul campo dall’interno; a questo proposito, l’inchiesta su “dirigentopoli” a Verona potrebbe smascherare i pericoli che stanno dietro a questo modo di intendere la dirigenza) è funzionale proprio a lasciare i dirigenti di ruolo senza incarichi, per poi licenziarli dopo due anni di soldi inutilmente sperperati a pagarli senza una ragione?

La licenziabilità dei dirigenti pubblici, come di qualsiasi lavoratore, dovuta a giustificati motivi oggettivi o soggettivi e, nel caso di specie, in particolare alla capacità di cogliere i risultati operativi previsti, è sacrosanta. Ma, in assenza di norme che chiariscano che vi debba essere una strettissima connessione tra numero dei dirigenti di ruolo e incarichi da conferire, è evidente il trucco per lasciare a casa dirigenti non funzionali, a prescindere da qualsiasi valutazione della loro capacità. Basterà prendere qualche dirigente da fuori, intasare così la dotazione di fatto, far risultare gli incarichi già occupati ed il gioco sarà fatto, a prescindere da ogni “merito” diverso da quello di far parte di una congrega politica ben precisa.

L’intervista rivela che riappare, dopo un mese di accantonamento, l’assurda idea della connessione del risultato della dirigenza all’andamento del Pil. Allo stesso modo, potrebbero prevedere che il risultato sia collegato alla vittoria dell’Italia ai mondiali oppure al volo degli uccelli. Ciò dimostra la sommarietà e la demagogia di una riforma che non solo punta a legare in maniera inaccettabilmente stretta politica e dirigenza, tanto da connettere la retribuzione di risultato, valore da legare ad una rigorosa valutazione, ad un elemento totalmente casuale e in alcun caso direttamente connesso con la specifica attività gestionale dei dirigenti.

Si tratta, insomma, di una riforma a passo di slogan, sulla cui utilità è molto da dubitare. Sconcerta lo spezzone di intervista che commenta l’intento di ridurre da 107 a 40 le sedi degli uffici periferici dello Stato, quando Rughetti afferma: “Oggi ad Aosta o a Palermo la struttura dello Stato è sempre la stessa senza che ci siano le stesse necessità. Ci sono 107 Prefetture, 107 uffici scolastici, 107 uffici del lavoro, ecc. e questo modo la mobilità dei dipendenti tra le varie amministrazioni è impossibile. La nostra idea è che si è dipendenti della Repubblica momentaneamente incardinati in un ente, domani si cambia. E’ una rivoluzione, o no?”.

Cioè, l’organizzazione dell’amministrazione pubblica dovrebbe essere funzionale al gioco a Risiko dello spostamento delle pedine, considerato in sé un valore e non per la sua funzionalità a ad interessi collettivi e alla loro cura.

La conclusione da trarre è inevitabile. Si ha la fondata sensazione che non si tratti di una riforma della PA ad utilità della PA, bensì volta alla gestione del “potere” politico, del tutto insufficiente, quindi, a ricavare concreti risparmi e soprattutto tangibili benefici per cittadini e imprese.

Luigi Oliveri

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